di Giorgio ACQUAVIVA Presidente Ucsi Lombardia
Redazione
Il messaggio che il cardinale Tettamanzi ha scritto per la Giornata diocesana di Avvenire è in effetti indirizzato a tutti quei cattolici che svolgono il lavoro del giornalista e, più in generale, del comunicatore. Io almeno l’ho inteso in questo senso, dopo averlo letto attentamente, segnando con una matita due o tre passaggi che ritengo cruciali nell’attuale contingenza sociale e politica che il nostro Paese (e con esso i media) sta vivendo. Di questo lo ringrazio, anche a nome dell’Unione cattolica stampa italiana di Lombardia.
Tettamanzi loda Avvenire per la «rara evidenza» che il quotidiano riserva a temi come il volontariato, la cultura cristiana, la politica internazionale, i drammi dimenticati dei popoli, ciò che nel Paese funziona ed è esemplare. Ma non è difficile capire che il discorso è anche una lezione per direttori e capiredattori votati alla riproposizione stanca del mugugno nazionale, dei tormentoni scandalistici, della cronaca nera che-fa-vendere.
Ancora, l’Arcivescovo indica ai colleghi di Avvenire la sfida della «forte mediazione» culturale. Richiama l’attenzione sulla necessità di rispettare l’opinione pubblica e di aiutarla a crescere, anziché considerarla «territorio da saccheggiare». Resta la domanda: ma perché il pubblico, i lettori, i telespettatori si lasciano saccheggiare? Forse perché – come si dice nel messaggio – è in corso una «azione irresponsabile di costrizione del consenso»? Probabilmente sì, anche se sarebbe bello che la società civile fosse più attiva e creativa, anche boicottando trasmissioni e giornali che spargono veleni nel corpo sociale.
Infine, il Cardinale entra nel periglioso campo della politica (che, come si ricorderà, è per il credente «forma eminente di carità») e addita la virtù della pazienza: «La costruzione del consenso si ottiene con un laborioso, rigoroso e responsabile percorso che coinvolge tutti gli attori sociali (anche i più deboli, i meno influenti e rappresentati), non invece con quell’atto rapido e opportunistico che ghermisce e contabilizza la superficiale opinione delle persone dagli stessi media prima allarmate, disinformate e condizionate». Non c’è molto da aggiungere, perché il discorso appare chiaro, trasparente.
E allora? A quei cattolici che svolgono il mestiere di giornalista tocca trarre le conseguenze di questi richiami autorevoli. Che poi sarebbe compiere il proprio dovere, né più né meno. Archiviata ormai da tempo la favoletta della "neutralità" dell’informazione, occorre assumersi la responsabilità di «comunicare e informare la realtà mediante un’opera di interpretazione». Sì, interpretazione, che sia onesta e correttamente disvelata al lettore, perché cada anche l’alibi del predicare bene e razzolare male. E questo da tutte e due le parti. Il messaggio che il cardinale Tettamanzi ha scritto per la Giornata diocesana di Avvenire è in effetti indirizzato a tutti quei cattolici che svolgono il lavoro del giornalista e, più in generale, del comunicatore. Io almeno l’ho inteso in questo senso, dopo averlo letto attentamente, segnando con una matita due o tre passaggi che ritengo cruciali nell’attuale contingenza sociale e politica che il nostro Paese (e con esso i media) sta vivendo. Di questo lo ringrazio, anche a nome dell’Unione cattolica stampa italiana di Lombardia.Tettamanzi loda Avvenire per la «rara evidenza» che il quotidiano riserva a temi come il volontariato, la cultura cristiana, la politica internazionale, i drammi dimenticati dei popoli, ciò che nel Paese funziona ed è esemplare. Ma non è difficile capire che il discorso è anche una lezione per direttori e capiredattori votati alla riproposizione stanca del mugugno nazionale, dei tormentoni scandalistici, della cronaca nera che-fa-vendere.Ancora, l’Arcivescovo indica ai colleghi di Avvenire la sfida della «forte mediazione» culturale. Richiama l’attenzione sulla necessità di rispettare l’opinione pubblica e di aiutarla a crescere, anziché considerarla «territorio da saccheggiare». Resta la domanda: ma perché il pubblico, i lettori, i telespettatori si lasciano saccheggiare? Forse perché – come si dice nel messaggio – è in corso una «azione irresponsabile di costrizione del consenso»? Probabilmente sì, anche se sarebbe bello che la società civile fosse più attiva e creativa, anche boicottando trasmissioni e giornali che spargono veleni nel corpo sociale.Infine, il Cardinale entra nel periglioso campo della politica (che, come si ricorderà, è per il credente «forma eminente di carità») e addita la virtù della pazienza: «La costruzione del consenso si ottiene con un laborioso, rigoroso e responsabile percorso che coinvolge tutti gli attori sociali (anche i più deboli, i meno influenti e rappresentati), non invece con quell’atto rapido e opportunistico che ghermisce e contabilizza la superficiale opinione delle persone dagli stessi media prima allarmate, disinformate e condizionate». Non c’è molto da aggiungere, perché il discorso appare chiaro, trasparente.E allora? A quei cattolici che svolgono il mestiere di giornalista tocca trarre le conseguenze di questi richiami autorevoli. Che poi sarebbe compiere il proprio dovere, né più né meno. Archiviata ormai da tempo la favoletta della "neutralità" dell’informazione, occorre assumersi la responsabilità di «comunicare e informare la realtà mediante un’opera di interpretazione». Sì, interpretazione, che sia onesta e correttamente disvelata al lettore, perché cada anche l’alibi del predicare bene e razzolare male. E questo da tutte e due le parti.