La morte del maestro della commedia italiana

di Gianluca ARNONE "Rivista del Cinematografo" (www.cinematografo.it)
Redazione

Era il maestro della commedia italiana, ma per il gran finale ha scelto la più amara delle tragedie. Mario Monicelli è morto così, senza sorrisi né sberleffi, lanciandosi all’età di 95 anni dal quinto piano dell’ospedale romano “San Giovanni”, dove era ricoverato da tempo nel reparto di urologia per un tumore alla prostata. L’hanno trovato a pochi metri dall’ingresso del pronto soccorso, disteso in un vialetto, il corpo immobile, quasi addormentato tra le aiuole. Un gesto di resa, un atto di folle liberazione? Di sicuro il refrain di un destino diabolico che aveva già segnato il padre Tomaso, scrittore e giornalista: anche lui si era ammazzato, era il 1946.
Monicelli è stato, se non il più grande, tra i più grandi registi del cinema italiano. Il suo habitat naturale era la commedia, ma trasfigurata nel segno di un’autorialità che ha saputo raccontare questo Paese e la sua fauna meglio di chiunque altro. E divertendo, e commuovendo. Riuscendo a parlare a tutti. In questa Italia con la pappa al cuore e la bocca sempre affamata di retorica verrà subito il tempo della commemorazione, dell’enfasi, del cordoglio non richiesto, del gran ballo delle celebrità. Tutto, tanto e subito. Per dimenticare in fretta. Questa è anche la sua Italia, cialtrona e acerba, cattolica e mascalzona, del nostro scontento e del loro vanto. Fasulla. Allora per una volta, finiamola qui. Di netto. Come ha fatto lui. Senza altre parole, senza ulteriore commento, ricordando solo chi era e cosa ha fatto. A ciascuno ha dato qualcosa. Che ognuno lo pianga da solo.
Nato a Viareggio, nel 1915, figlio di un giornalista e drammaturgo, Mario Monicelli si trasferisce a Milano nei primi anni ’30, e lì inizia a collaborare con Camminare?, un quindicinale d’avanguardia, in cui si occupa di Cinema. S’iscrive alla facoltà di storia e filosofia all’Università di Pisa. Nel 1935 partecipa alla Mostra del Cinema di Venezia con il film a passo ridotto I ragazzi della Via Paal, con cui vince un premio. Dopo un periodo come aiutoregista e sceneggiatore, nel 1949 inizia la collaborazione con Steno, durata fino al 1953. I due dirigono a quattro mani una serie di film che gettano le fondamenta della commedia all’italiana, interpretati da vari attori di avanspettacolo tra cui Totò e Aldo Fabrizi. Nel 1957 vince il suo primo Orso d’argento al Festival di Berlino con Padri e figli, nel 1958 realizza I soliti ignoti, con cui vince il Nastro d’argento per la miglior sceneggiatura, e l’anno successivo vince il Leone d’oro a Venezia con La grande guerra.
Avrebbe in seguito ottenuto grande consenso di pubblico e critica con L’armata Brancaleone (1966) e Brancaleone alle crociate (1969), Amici miei I e II (1975, 1982), Caro Michele (1976, Orso d’argento al Festival di Berlino), Un borghese piccolo piccolo (1977, David di Donatello per la miglior regia e Nastro d’argento per la miglior sceneggiatura), Il Marchese del Grillo (1981, Orso d’argento al Festival di Berlino e Nastro d’argento per la miglior sceneggiatura), Speriamo che sia femmina (1985, David di Donatello e Nastro d’argento per la miglior regia e la miglior sceneggiatura), Il male oscuro (1990, David di Donatello per la miglior regia) e Cari fottutissimi amici (1994, menzione speciale al Festival di Berlino).
Nel corso della sua carriera è stato anche due volte candidato all’Oscar per la miglior sceneggiatura: nel 1965 con I compagni (1963) e nel 1966 con Casanova ’70 (1965). Nel 1991 gli è stato assegnato il Leone d’oro alla carriera. Gli ultimi lavori: la commedia Le rose del deserto (2006) e il documentario Vicino al Colosseo c’è Monti presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia del 2009. Era il maestro della commedia italiana, ma per il gran finale ha scelto la più amara delle tragedie. Mario Monicelli è morto così, senza sorrisi né sberleffi, lanciandosi all’età di 95 anni dal quinto piano dell’ospedale romano “San Giovanni”, dove era ricoverato da tempo nel reparto di urologia per un tumore alla prostata. L’hanno trovato a pochi metri dall’ingresso del pronto soccorso, disteso in un vialetto, il corpo immobile, quasi addormentato tra le aiuole. Un gesto di resa, un atto di folle liberazione? Di sicuro il refrain di un destino diabolico che aveva già segnato il padre Tomaso, scrittore e giornalista: anche lui si era ammazzato, era il 1946.Monicelli è stato, se non il più grande, tra i più grandi registi del cinema italiano. Il suo habitat naturale era la commedia, ma trasfigurata nel segno di un’autorialità che ha saputo raccontare questo Paese e la sua fauna meglio di chiunque altro. E divertendo, e commuovendo. Riuscendo a parlare a tutti. In questa Italia con la pappa al cuore e la bocca sempre affamata di retorica verrà subito il tempo della commemorazione, dell’enfasi, del cordoglio non richiesto, del gran ballo delle celebrità. Tutto, tanto e subito. Per dimenticare in fretta. Questa è anche la sua Italia, cialtrona e acerba, cattolica e mascalzona, del nostro scontento e del loro vanto. Fasulla. Allora per una volta, finiamola qui. Di netto. Come ha fatto lui. Senza altre parole, senza ulteriore commento, ricordando solo chi era e cosa ha fatto. A ciascuno ha dato qualcosa. Che ognuno lo pianga da solo.Nato a Viareggio, nel 1915, figlio di un giornalista e drammaturgo, Mario Monicelli si trasferisce a Milano nei primi anni ’30, e lì inizia a collaborare con Camminare?, un quindicinale d’avanguardia, in cui si occupa di Cinema. S’iscrive alla facoltà di storia e filosofia all’Università di Pisa. Nel 1935 partecipa alla Mostra del Cinema di Venezia con il film a passo ridotto I ragazzi della Via Paal, con cui vince un premio. Dopo un periodo come aiutoregista e sceneggiatore, nel 1949 inizia la collaborazione con Steno, durata fino al 1953. I due dirigono a quattro mani una serie di film che gettano le fondamenta della commedia all’italiana, interpretati da vari attori di avanspettacolo tra cui Totò e Aldo Fabrizi. Nel 1957 vince il suo primo Orso d’argento al Festival di Berlino con Padri e figli, nel 1958 realizza I soliti ignoti, con cui vince il Nastro d’argento per la miglior sceneggiatura, e l’anno successivo vince il Leone d’oro a Venezia con La grande guerra.Avrebbe in seguito ottenuto grande consenso di pubblico e critica con L’armata Brancaleone (1966) e Brancaleone alle crociate (1969), Amici miei I e II (1975, 1982), Caro Michele (1976, Orso d’argento al Festival di Berlino), Un borghese piccolo piccolo (1977, David di Donatello per la miglior regia e Nastro d’argento per la miglior sceneggiatura), Il Marchese del Grillo (1981, Orso d’argento al Festival di Berlino e Nastro d’argento per la miglior sceneggiatura), Speriamo che sia femmina (1985, David di Donatello e Nastro d’argento per la miglior regia e la miglior sceneggiatura), Il male oscuro (1990, David di Donatello per la miglior regia) e Cari fottutissimi amici (1994, menzione speciale al Festival di Berlino).Nel corso della sua carriera è stato anche due volte candidato all’Oscar per la miglior sceneggiatura: nel 1965 con I compagni (1963) e nel 1966 con Casanova ’70 (1965). Nel 1991 gli è stato assegnato il Leone d’oro alla carriera. Gli ultimi lavori: la commedia Le rose del deserto (2006) e il documentario Vicino al Colosseo c’è Monti presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia del 2009.

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