Una serata speciale in Seminario con la proiezione in anteprima del film "Uomini di Dio" di Xavier Beauvois, da pochi giorni nelle sale italiane. La drammatica vicenda dei sette monaci trappisti trucidati in Algeria nel 1996, ha suscitato interessanti dibattiti e riflessioni per la profondità e attualità dei temi trattati
di Ylenia SPINELLI
Redazione
«Voi siete dei, siete tutti figli dell’Altissimo, ma certo morirete come ogni uomo, cadrete come tutti i potenti».
È con questa citazione del Salmo 81 sulla condanna dei giudici corrotti che inizia il film Uomini di Dio del regista francese Xavier Beauvois, proiettato ieri nell’aula magna del seminario di Seveso.
Una serata speciale, riservata a sacerdoti e seminaristi, organizzata dall’ufficio diocesano delle Comunicazioni Sociali in collaborazione con l’Acec, associazione cattolica esercenti cinema.
Il film, liberamente ispirato alla tragedia di Tibhirine del marzo 1996 in cui sette monaci trappisti francesi di un monastero algerino furono trucidati in circostanze ancora oggi misteriose, è un’opera preziosa sia per la qualità cinematografica, (riconosciuta con il gran premio della Giuria al festival di Cannes e la candidatura all’Oscar), sia per la profondità dei temi trattati.
Temi che sono stati analizzati e commentati, rispondendo alle tante domande dei seminaristi, da Gerolamo Fazzini e Anna Pozzi, rispettivamente direttore e giornalista di Mondo e Missione e dall’abate Luigi Gioia dei monaci Olivetani di Seregno.
La barbara uccisione di questi “uomini di Dio”, dediti alla preghiera e al lavoro, veri fratelli dei loro vicini mussulmani, assume un ulteriore significato e si carica di attualità se confrontata con le recenti stragi di cristiani in Iraq.
«Alla luce di questi fatti – commenta Fazzini – dobbiamo tenere presenti due elementi: il primo è che bisogna rivendicare la libertà religiosa come diritto fondamentale di tutte le persone, prima ancora che come valore di fede; in secondo luogo la lezione che il film ci offre è che la chiamata al martirio è connaturata al cristianesimo, è sulle orme di Cristo».
Al di là dei motivi e del modo in cui i monaci sono stati uccisi in un contesto di guerra civile e terrorismo islamico, per Anna Pozzi è bello soffermarsi sui frutti lasciati dal loro sacrificio. La giornalista ha infatti raccontato che durante i suoi viaggi in Algeria ha scoperto una Chiesa piccolissima numericamente, ma molto viva, che ancora oggi ha senso per quel binomio di amore e fedeltà per il Vangelo e per i fratelli mussulmani, che negli anni passati ha caratterizzato la presenza dei monaci. «Anche il monastero di Tibhirine – spiega – è ancora vivo, sebbene non ci abiti stabilmente nessuno. I trappisti, infatti, si sono trasferiti in Marocco in una comunità in cui ancora oggi vive uno dei due monaci sopravvissuti alla strage, ma dal 2000 un prete della Mission de France fa da spola tra Algeri e Tibhirine per garantire la continuità dei lavori agricoli, i rapporti con la gente del posto, il dialogo interreligioso».
La cosa che invece ha maggiormente colpito l’abate Gioia è il forte senso di comunità e di vita fraterna. «Sebbene all’inizio del film- spiega- non tutti fossero convinti di rimanere in quel luogo pericoloso, alla fine tutti si sono lasciati “disarmare”, chi dalla volontà di imporre la propria scelta sugli altri e chi dalla paura. E così, tutti insieme, affrontano il martirio. La ragione per cui sono morti sta nel fatto che hanno voluto essere fratelli di tutti».
Anche i seminaristi sono stati colpiti dallo spirito di gruppo e dal forte senso di fraternità. «È una lezione che dovremmo imparare tutti – dice Andrea Damiani di II teologia – non è facile condividere gli stessi spazi, gli stessi ritmi di vita, ma può dare grandi frutti: insieme ci si confronta, si cresce, noi lo sperimentiamo in parrocchia ogni domenica».
Inoltre il film, sebbene finisca male, ha lasciato un grandissimo messaggio di speranza nei futuri preti. «Nulla di ciò che si fa con amore e carità va perduto – aggiunge il seminarista – tutto porta frutto, anche se siamo noi a seminare ma non a far crescere!».
Marco Tuniz, di I teologia, è stato invece colpito dal fatto che anche nei momenti del dubbio, della paura o di difficoltà, i monaci si siano sempre affidati alla preghiera. «La stessa liturgia – dice – fa percepire una profonda comunione con Dio». «Voi siete dei, siete tutti figli dell’Altissimo, ma certo morirete come ogni uomo, cadrete come tutti i potenti».È con questa citazione del Salmo 81 sulla condanna dei giudici corrotti che inizia il film Uomini di Dio del regista francese Xavier Beauvois, proiettato ieri nell’aula magna del seminario di Seveso. Una serata speciale, riservata a sacerdoti e seminaristi, organizzata dall’ufficio diocesano delle Comunicazioni Sociali in collaborazione con l’Acec, associazione cattolica esercenti cinema. Il film, liberamente ispirato alla tragedia di Tibhirine del marzo 1996 in cui sette monaci trappisti francesi di un monastero algerino furono trucidati in circostanze ancora oggi misteriose, è un’opera preziosa sia per la qualità cinematografica, (riconosciuta con il gran premio della Giuria al festival di Cannes e la candidatura all’Oscar), sia per la profondità dei temi trattati. Temi che sono stati analizzati e commentati, rispondendo alle tante domande dei seminaristi, da Gerolamo Fazzini e Anna Pozzi, rispettivamente direttore e giornalista di Mondo e Missione e dall’abate Luigi Gioia dei monaci Olivetani di Seregno. La barbara uccisione di questi “uomini di Dio”, dediti alla preghiera e al lavoro, veri fratelli dei loro vicini mussulmani, assume un ulteriore significato e si carica di attualità se confrontata con le recenti stragi di cristiani in Iraq. «Alla luce di questi fatti – commenta Fazzini – dobbiamo tenere presenti due elementi: il primo è che bisogna rivendicare la libertà religiosa come diritto fondamentale di tutte le persone, prima ancora che come valore di fede; in secondo luogo la lezione che il film ci offre è che la chiamata al martirio è connaturata al cristianesimo, è sulle orme di Cristo».Al di là dei motivi e del modo in cui i monaci sono stati uccisi in un contesto di guerra civile e terrorismo islamico, per Anna Pozzi è bello soffermarsi sui frutti lasciati dal loro sacrificio. La giornalista ha infatti raccontato che durante i suoi viaggi in Algeria ha scoperto una Chiesa piccolissima numericamente, ma molto viva, che ancora oggi ha senso per quel binomio di amore e fedeltà per il Vangelo e per i fratelli mussulmani, che negli anni passati ha caratterizzato la presenza dei monaci. «Anche il monastero di Tibhirine – spiega – è ancora vivo, sebbene non ci abiti stabilmente nessuno. I trappisti, infatti, si sono trasferiti in Marocco in una comunità in cui ancora oggi vive uno dei due monaci sopravvissuti alla strage, ma dal 2000 un prete della Mission de France fa da spola tra Algeri e Tibhirine per garantire la continuità dei lavori agricoli, i rapporti con la gente del posto, il dialogo interreligioso».La cosa che invece ha maggiormente colpito l’abate Gioia è il forte senso di comunità e di vita fraterna. «Sebbene all’inizio del film- spiega- non tutti fossero convinti di rimanere in quel luogo pericoloso, alla fine tutti si sono lasciati “disarmare”, chi dalla volontà di imporre la propria scelta sugli altri e chi dalla paura. E così, tutti insieme, affrontano il martirio. La ragione per cui sono morti sta nel fatto che hanno voluto essere fratelli di tutti».Anche i seminaristi sono stati colpiti dallo spirito di gruppo e dal forte senso di fraternità. «È una lezione che dovremmo imparare tutti – dice Andrea Damiani di II teologia – non è facile condividere gli stessi spazi, gli stessi ritmi di vita, ma può dare grandi frutti: insieme ci si confronta, si cresce, noi lo sperimentiamo in parrocchia ogni domenica».Inoltre il film, sebbene finisca male, ha lasciato un grandissimo messaggio di speranza nei futuri preti. «Nulla di ciò che si fa con amore e carità va perduto – aggiunge il seminarista – tutto porta frutto, anche se siamo noi a seminare ma non a far crescere!». Marco Tuniz, di I teologia, è stato invece colpito dal fatto che anche nei momenti del dubbio, della paura o di difficoltà, i monaci si siano sempre affidati alla preghiera. «La stessa liturgia – dice – fa percepire una profonda comunione con Dio». Il film in programmazione nelle Sale della Comunità – 12-14 novembre: Cinema Auditorium di Bollate (via Battisti 14)15-18 novembre: Cineteatro Cristallo di Cesano Boscone (via Pogliani 7/A)19 novembre: Cinema Castellani di Azzate (via Acquadro 32), ingresso gratuito per sacerdoti e seminaristi –