Lui, italiano, nei servizi di sanità. L'altro, americano, ferito al fronte. Entrambi ventenni. Si incontrano nella struttura opedaliera di Cassano. Ma solo vent'anni dopo, leggendo «Addio alle armi», Enrico capì chi aveva accudito...


Redazione

30/10/2008

di Fulvio BRUSCHETTI

«Thank You very much, Enrico», «Coraggio, Ernest» . Così si sarebbero detti per quasi un mese, dopo ogni medicazione. Per il piccolo e gracile Enrico, classe 1896, infermiere militare, l’alto e robusto Ernest era uno dei molti soldati americani giunti in Europa per combattere al fianco degli italiani durante la Grande Guerra del 1915-‘18 e ricoverati all’ospedale di Cassano d’Adda.

Un rapporto di cortesia tra due commilitoni che potrebbe essere simile a tanti altri accaduti durante la prima guerra mondiale se non si trattasse di una storia vissuta nei lunghi e bui cameroni di un presidio sanitario di guerra tra uno degli scrittori più conosciuti al mondo, ma ignoto al giovane Enrico, e un timido ragazzo, poco più che ventenne, non idoneo al servizio militare ma utile ai servizi sedentari.

A quell’epoca, tra il 1917 e il 1918, a Cassano d’Adda (non lontano da Milano) venivano curati i soldati feriti sul Carso, sull’Adamello, sul Tonale, sull’Altipiano di Asiago, nelle trincee del Trentino e del Friuli e quelli sopravvissuti ai gas asfissianti. Si trattava di una i mportante struttura sanitaria anche se non di prima linea, dove medici ed infermieri militari assieme alle crocerossine volontarie lenivano i dolori causati dalle gravi ustioni subite, ricucivano i poveri corpi lacerati dalle granate e dalle pallottole, dotavano di protesi i mutilati, operavano i più gravi e avviavano i sopravvissuti ai convalescenziari.

I degenti erano in gran parte fanti italiani ma anche soldati alleati e tra questi c’era un gruppo appartenente all’US Army, facente parte del corpo di spedizione americano venuto in soccorso d’Italia, Francia, Belgio, Olanda e Gran Bretagna impegnate nella guerra contro Germania e Austria. Il compito di Enrico era quello di fasciare le ferite, medicare i poveri moncherini, trasportare gli infermi su barelle e sedie a rotelle, accudire all’igiene personale. Un impegno che assolveva con dedizione e amore verso un prossimo duramente provato. In fondo, questa, era la “sua guerra”, combattuta alle dipendenze della Sanità Militare del Regio Esercito Italiano, anzichè in armi al fronte.

Enrico divenne infermiere militare per via di una invalidità contratta da piccolo che lo rendeva claudicante. Solo dopo 30 anni dalla fine della guerra scoprì che Ernest era il celebre romanziere americano Hemingway, giornalista, scrittore e combattente quando lesse il libro Addio alle Armi.

Potremmo immaginare l’emozione provata il giorno del commiato dal “soldato-bevitore” americano che lo salutò per l’ultima volta dandogli una grande pacca sulle spalle e stringendogli la mano gli disse in perfetto italiano: «Ciao Enrico, grazie per tutto e arrivederci presto».«Ok Ernest, buona fortuna!». Invece non si incontrarono mai più.

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