L’indagine promossa da Istituto Toniolo, Università cattolica e Acli milanesi e realizzata da Ipsos in oltre 400 aziende sul gradimento di datori di lavoro e dipendenti

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Il picco di contagi determinato dalla variante Omicron tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022 sta portando molte aziende ad adottare soluzioni di lavoro da remoto sperimentate durante i lockdown del 2020. Si riapre, di conseguenza, il dibattito su pro e contro dello smart working. Si tratta di una riflessione necessaria, non solo per gestire l’emergenza, ma per progettare il lavoro del futuro.

Ecco quanto emerge dall’indagine condotta da Ipsos per Laboratorio Futuro dell’Istituto Toniolo. Le evidenze sono raccolte nel report «Il futuro della città. Smart working nelle imprese milanesi al tempo del Covid-19» a cura di Cecilia Leccardi (Acli) e Ivana Pais, del dipartimento di Sociologia dell’Università cattolica del Sacro Cuore. Il report è stato presentato durante un webinar recentemente promosso da Istituto Toniolo, Università cattolica e Acli milanesi con il patrocinio del Comune di Milano, in diretta sui canali social del Toniolo e dell’ateneo.

Oltre alle curatrici dell’indagine sono intervenuti Alessandro Rosina (demografo dell’Università cattolica e coordinatore scientifico dell’Osservatorio giovani), Alessia Cappello (assessore allo Sviluppo economico e politiche del lavoro al Comune di Milano), Claudia Pratelli (assessore al Comune di Roma), Paolo Ricotti (presidente nazionale patronato Acli), Cristina Tajani (consigliere esperto del Ministero del Lavoro).

L’impatto sul territorio e il gradimento

Il lavoro da remoto è prevalentemente un fenomeno urbano – e Milano assume un’evidente centralità nel tessuto produttivo italiano – con implicazioni sia sui territori della cintura e della provincia, sia su aree geograficamente lontane.

Le aziende della provincia di Milano che non ritengono possibile il lavoro da remoto sono il 43%: sono localizzate prevalentemente nei Comuni della Provincia (50,8% vs 43,4% nei Comuni della prima fascia e 36,6% nella città di Milano); sono di piccole dimensioni (43% delle aziende da 1 a 49 addetti vs 19% delle aziende sopra i 50 addetti); operano nel settore del commercio (77,2% vs 48% nell’industria e 32% nei servizi); hanno incontrato importanti difficoltà durante l’emergenza pandemica (56% tra coloro che hanno interrotto l’attività e 48,9% tra le aziende l’hanno ridotta drasticamente vs 26,7% tra quelle che non hanno subito modifiche, 30,5% tra le aziende che hanno ridotto solo parzialmente le attività e 31,5% tra quelle che hanno aumentato l’attività); hanno oltre vent’anni di attività (48% vs 38,1% delle aziende con meno di 20 anni). Inoltre, anche tra le aziende che ritengono possibile lo smart working, il 47,4% ritiene che sia applicabile solo per alcune funzioni e livelli aziendali.

La valutazione media complessiva dell’esperienza dello smart working nel periodo emergenziale è pari a 6,64 in scala da 1 (pessimo) a 10 (eccellente). Le aziende più soddisfatte sono quelle dei Comuni della prima fascia, di grandi dimensioni, nel settore del commercio. Rispetto alla valutazione delle opportunità offerte dallo smart working, quella che raccoglie punteggi più elevati tra le aziende riguarda i benefici complessivi per i lavoratori (6,83), seguita da produttività del lavoro (6,69), bilanciamento vita lavorativa-vita privata (6,61) e contenimento costi aziendali (6,58).

Lo smart working ha ottenuto la piena promozione da parte di circa 1 lavoratore su 2 (il 46% dei rispondenti ha selezionato un valore compreso tra 8-10 sulla scala di preferenza) e la sufficienza da 1 lavoratore su 3 (30,8%). Giudizio positivo espresso soprattutto dai lavoratori più giovani (media 7,3), da coloro che risiedono in provincia (media 7,1), seppur vi abbiano fatto meno ricorso rispetto ai colleghi residenti in città, da coloro che sono in possesso di un titolo di studio superiore (media 7,2) e dai lavoratori impiegati in grandi aziende (media 7,1).

Tra gli aspetti più penalizzati dal lavoro da remoto vi sono i rapporti interpersonali. In particolar modo, i lavoratori più giovani dichiarano di privilegiare rapporti personali con i propri superiori, dai quali ricercano direttamente indicazioni direttive sul lavoro da svolgere ed eventuali correttivi.

Le donne ancora penalizzate

Per quanto concerne invece il tema della conciliazione vita-lavoro, tra coloro che hanno manifestato più largamente il loro consenso allo smart working quale strumento utile in tal senso, spiccano i profili professionali altamente qualificati (media 7,1), punteggio al di sopra della media anche per i giovani di età compresa tra 18-39 anni (media 6,8), i lavoratori di età intermedia (media 6,9) e chi è in possesso di un titolo di studio pari o superiore alla laurea (6,8). Al contrario, tra i più penalizzati ci sono le donne (media 6,5), che smentiscono così la parziale inefficacia dello smart working quale strumento di conciliazione tra vita lavorativa e impegni privati, per come è stato pensato in origine dal legislatore.

La motivazione di un tale posizionamento femminile rispetto ai benefici apportati dal lavoro da remoto alla conciliazione vita-lavoro può risiedere in una distribuzione degli impegni domestici e familiari ancora troppo sbilanciati a carico delle lavoratrici che, pure se impegnate in smart working, faticano a dividersi tra impegni lavorativi e domestici. Il lavoro agile, che pure è nato proprio per rispondere a esigenze di conciliazione più spesso espresse dalle donne, nella formula forzata ed emergenziale degli scorsi mesi ha penalizzato proprio le lavoratrici, su cui ricadono ancora i carichi di cura. Nel progettare soluzioni stabili per il post-pandemia questi elementi devono essere presi in adeguata considerazione.

Il futuro

Interrogate circa le prospettive future sullo smart working, la quasi totalità delle aziende che non vi fa ricorso non ha intenzione di introdurlo (98%); tra chi l’ha sperimentato, il 41% continuerà con le modalità adottate al momento della rilevazione, il 20% intende potenziarlo, il 16% depotenziarlo e il 24% interromperlo.

Rispetto alle scelte di localizzazione, il 66,3% non intende operare cambiamenti, mentre il 9,6% dichiara di volersi spostare da Milano; sono aziende di piccole dimensioni, che operano nei servizi, localizzate in provincia di Milano, che intendono comunque restare in Italia. Le aziende di grandi dimensioni, nell’industria, nei Comuni della prima fascia evidenziano le opportunità dello smart working per il proprio territorio, mentre le aziende di Milano città, di piccole dimensioni, che operano nel commercio, vedono maggiori rischi. La sperimentazione forzata effettuata nel primo lockdown potrebbe favorire processi di riorganizzazione degli spazi e dei tempi di lavoro. Questo non sembra però prefigurare – almeno per il momento – impatti dirompenti a livello territoriale.

Rispetto al rapporto con i colleghi, l’indagine conferma l’importanza del lavoro come vero e proprio fatto sociale, ovvero come occasione di socialità e di relazionalità, e non solo come strumento di guadagno economico. In vista di una possibile e auspicata integrazione dell’istituto dello smart working nei piani organizzativi aziendali, si apre uno spazio inedito, da esplorare, per ripensare modalità lavorative che valorizzino anzitutto la persona, le sue ambizioni professionali, le sue necessità, il bisogno di relazioni autentiche.

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