Redazione

Forse più di ogni altro sport il ciclismo si presta all’esplorazione del proprio lato umano. Per questo, nel corso della sua storia, ha annoverato tra i suiveurs veri e propri “aedi” delle due ruote. Giornalisti “rubati” alla letteratura – Bruno Roghi, Gianni Brera, Bruno Raschi -, oppure scrittori e poeti “prestati” alla cronaca sportiva, da Indro Montanelli a Orio Vergani, da Dino Buzzati ad Alfonso Gatto.

Uno dei più apprezzati cantori al seguito del Giro è Claudio Gregori, inviato della Gazzetta dello Sport: «Facciamo un confronto con il calcio: una partita si gioca allo stadio, cioè in uno spazio chiuso, protetto. Il ciclismo, invece, è sinonimo di strada, di spazi aperti, di avventura, lunga e dura. Ed è fatica, sofferenza, dolore, in qualche caso persino tragedia. Affronta tutto lo spettro delle situazioni della vita e per questo richiede non solo abilità, ma anche audacia e coraggio».

Un contesto che Gregori trova congeniale per esprimersi con grande originalità: «Trovo riduttivo limitarsi all’aspetto tecnico del ciclismo. Non si può parlare solo di rapporti, ruote o pendenze. Conoscendo l’uomo, si scopre l’uomo in bicicletta e gli si dà profondità».

Tra le tante raccolte al Giro 2005, a Gregori è forse rimasta più impressa una storia non raccontata: «Una sera, al sud, ho conversato per un’ora con l’australiano Matthew Wilson. Qualche anno fa ha contratto il morbo di Hodgkin e si è ritrovato in un’avventura ad alto rischio di mortalità, molto più dura di qualsiasi salita. Una storia di dolore, ma anche di speranza. Poi mi è dispiaciuto molto il ritiro di Pozzovivo, un corridore con la faccia da bambino, che esprime fragilità e al tempo stesso amore per la corsa. Pur debuttante, ha corso sempre all’attacco. Poi è caduto, è arrivato al traguardo sanguinante e in grave ritardo. Il giorno dopo – era la tappa del Colle delle Finestre – è ripartito, ma non ce l’ha fatta e ha dovuto ritirarsi».

Gregori ha scritto anche del dramma di Basso e della «grandezza del dolore» con la quale ha conquistato l’affetto della gente, forse più che non se avesse vinto il Giro: «Si può senz’altro dire così. La grandezza di un corridore è data anche dalla sua dimensione umana, che si esalta nella capacità di vincere le difficoltà e le disavventure. Dai riscontri che ho avuto parlando con molti tifosi, posso assicurare che Basso è uscito ingigantito dalla vicenda dello Stelvio».

“Bravi tutti, ma ridateci il Pirata”: solo uno dei numerosi cartelli e striscioni sulle strade del Giro ancora dedicati a Marco Pantani. Nostalgia per un campione capace di essere anche personaggio? «Pantani è emerso in un periodo buio per il ciclismo, quello del doping, dell’Epo e degli ematocriti alti. Ha affascinato la folla, ha conquistato i mass media e come uomo forse non è stato “esplorato” compiutamente. In lui hanno convissuto grandezza e miseria, lo splendore della vittoria e l’angoscia della tragedia. È stato un eroe, ma non senza macchia. Non è un modello, ma un personaggio tragico, cui si deve solidarietà, vicinanza, memoria e pietà, nel senso più pieno del termine, ed e’ bello che la gente del ciclismo continui a ricordarlo. Io – che pure nei suoi confronti ho una visione più critica di quella di altri miei colleghi – quando il Giro è passato dalla Romagna, sono andato a trovarlo al cimitero di Cesenatico. E mi sono commosso».

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