Più facile fare sport in provincia che in città? È vero, ma non sottovalutiamo quanto si realizza all'ombra dei campanili


Redazione

03/10/2008

di Mauro COLOMBO

Il Corriere della sera ha pubblicato ieri un interessante focus sullo stato di salute dello sport in Italia, prendendo spunto da un singolare dato statistico: 25 delle 28 medaglie vinte complessivamente dall’Italia alle Olimpiadi di Pechino sono state conquistate da atleti provenienti da centri di provincia. Alle metropoli sono rimaste solo le briciole.

Il dato riguarda lo sport nella sua espressione di massimo vertice – i Giochi olimpici, appunto -, ma è lo specchio di una condizione che investe anche la base dei praticanti: se in una grande città è difficile fare sport – a causa dei frenetici ritmi di vita, dell’insufficienza di impianti o delle costose tariffe richieste per accedervi e della concorrenzialità di altre forme di intrattenimento, magari meno salutari, ma più seducenti – sarà altamente improbabile che da essa possano nascere fuoriclasse.

Da qui scaturisce l’elogio della provincia, emblema di una vita più tranquilla, a misura d’uomo e quindi d’atleta, da tempo riconosciuta quale efficiente “motore” in vari ambiti della società e che oggi si scopre anche preziosa fucina di campioni.

Il focus del Corriere stringe poi l’obiettivo su Milano, città che ha dato i natali all’atleta più medagliato dello sport italiano, Edoardo Mangiarotti (brillantemente alla soglia dei 90 anni), ma che a Pechino è salita sul podio una volta sola.

L’elenco delle magagne è lungo e neppure inedito: l’annosa mancanza di impianti d’eccellenza, come lo stadio e la piscina olimpici e il palasport; la discutibile gestione pubblica delle strutture di base, aggravata da alcune recenti chiusure, come quella della piscina di via Mecenate; i costi spesso insostenibili per le famiglie; il tramonto di gloriose società amatoriali, tradizionali collettori delle prime velleità agonistiche di tanti ragazzi… Lo sguardo torna poi ad allargarsi nell’ottica dell’Expo 2015, visto anche in questa prospettiva come un’occasione irrinunciabile.

In un quadro complessivamente a tinte fosche, è giusto però scorgere un barlume di luce nell’apporto tradizionalmente garantito dagli oratori ambrosiani, che hanno riaperto i battenti proprio in questi giorni. Un apporto in primo luogo educativo, nella capacità di vedere nello sport uno strumento utile per la formazione integrale della persona. Ma anche strutturale, nei contributi che campi di calcio, palazzetti, palestre e spogliatoi sorti all’ombra dei campanili hanno fornito alla pratica sportiva di base.

Un ruolo che non va enfatizzato o, peggio, strumentalizzato, ma che merita di essere rilevato e adeguatamente sostenuto. L’oratorio non può risolvere i problemi dello sport, a Milano come altrove. Ma se fa bene lo sport, può far bene anche allo sport.

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