Al Campo della Gloria commemorati i caduti della Resistenza. L’intervento dell'Arcivescovo ha legato la storia all'attualità: «Siamo qui per credere alla vocazione a camminare insieme»
di Annamaria
BRACCINI
«La memoria è la nostra responsabilità». È questa la parola con cui l’Arcivescovo definisce un ricordo capace di farsi vita per il presente e insegnamento per il futuro. «La memoria di quello che è stato, in particolare degli eventi e delle vicende che hanno dato una svolta alla storia di un popolo, è una responsabilità che si deve sempre esercitare. Questo coraggio che contiene fiducia nel futuro, negli altri, nella capacità delle persone umane di combattere il male e di diffondere la forza dell’amore è proprio quanto ci serve oggi a Milano, il 25 aprile 2020, per affrontare un’altra emergenza».
Il Campo della Gloria del Cimitero Maggiore, a 75 anni dai giorni della Liberazione di Milano e del nostro Paese, con il suo monumento ai partigiani caduti, tra le tante semplici lapidi tutte uguali del Campo 64, trasmette – nonostante tutto – serenità e forza, quella che sempre viene dal coraggio vissuto in prima persona, fino al sacrificio, per il bene della comunità.
Davanti alle corone commemorative e alle bandiere, un minuto di silenzio e preghiera vede riuniti l’Arcivescovo, il presidente della Comunità ebraica di Milano Milo Hasbani, la vicesindaco Anna Scavuzzo in rappresentanza del Primo Cittadino e Roberto Cenati, presidente del Comitato provinciale di Milano dell’Anpi, che in accordo con il Comune ha promosso la cerimonia.
«Quest’anno, a causa della pandemia che sta mietendo decine di migliaia di vittime e diffondendo sofferenza anche sul piano economico, l’Associazione Partigiani ha deciso questo ricordo, così diverso dal solito», spiega Cenati, che prosegue citando Piero Calamandrei: «“Questi morti sono entrati a far parte della nostra vita, come se morendo avessero arricchito il nostro spirito di una presenza silenziosa e vigile, con la quale, a ogni istante, nel segreto della nostra coscienza, dobbiamo tornare a fare i conti. Quando pensiamo a loro per giudicarli, ci accorgiamo che sono loro che giudicano noi: dipende da noi farli vivere o farli morire per sempre”. Sta a noi coltivare i loro valori, dedizione alla libertà e al bene comune. Una spinta a contrastare egoismi, nazionalismo, l’antisemitismo, la xenofobia»
L’intervento dell’Arcivescovo
«Avevamo iniziato questo 2020 celebrando in forma solenne i 75 anni della Liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, lo scorso 27 gennaio, come episodio significativo capace di rappresentare tutte le grida che si elevano anche oggi per la fine dei soprusi, delle oppressioni tra popoli e nazioni», ricorda l’Arcivescovo, richiamando ciò che Milano «che ha ricevuto il titolo di capitale della Resistenza», stava preparando.
Tutto, naturalmente, sconvolto e annullato, e allora il tempo attuale può rivelarsi, se letto con la fede, come una prospettiva inedita: «Ci troviamo a celebrare la memoria di tante persone che hanno creduto nei valori della libertà, della vita, della coesione sociale, da mettere a repentaglio e da sacrificare le loro stesse esistenze. Questo loro coraggio è ciò che ci viene riconsegnato, come dono, in questo anniversario».
Una memoria doverosa, certamente, ma che deve essere valutata nella sua autentica utilità e ricchezza. Da qui, la sottolineatura di alcuni “rischi”, da parte dell’Arcivescovo, come rendere la commemorazione un rito, una formalità: «La celebrazione formale si logora con il tempo, l’aspetto di doverosità la rende noiosa, il fatto che sia doverosa predispone ai distinguo e alla ricerca di buone ragioni per giustificare la propria assenza».
Poi, «la memoria degli eventi e delle vicende che può essere celebrata come memoria di vittoria, divenendo l’autocelebrazione dei vincitori e comportando, dunque, il rischio di essere qualcosa di parte, che divide, che alimenta l’accanimento nel rivendicare meriti, nell’accusare di scelte sbagliate, nel cercare giustificazioni. La storia è cosi complicata che il desiderio di distinguere tra vinti e vincitori può essere elemento divisivo».
Infine, il ricordo come memoria di una sconfitta, «di una ferita subita, di troppe morti ingiuste che può diventare occasione per il risentimento, alimentando una specie di pretesa di risarcimento o una aspettativa di rivincita».
Al contrario, «la memoria degli eventi, delle vicende e delle persone, che hanno pagato il prezzo più alto, può essere celebrata come condivisione di una speranza, come la fiducia in una promessa. Uomini e donne della Resistenza hanno creduto a una promessa, hanno compiuto le loro imprese, hanno sofferto e rischiato, hanno pagato con la vita la speranza di un Paese libero, di un popolo libero unito da valori condivisi e liberamente scelti. Hanno creduto a una terra promessa e perciò non si sono rassegnati a una terra di schiavitù. Personalmente sento la responsabilità di celebrare la memoria dei martiri della Resistenza come memoria di una promessa. Sento che solo questo modo di vivere la memoria contiene una possibilità di costruire insieme il futuro. I cristiani credono che questa storia è pellegrinaggio verso la terra promessa, credono che tutti gli uomini sono chiamati a vivere il tempo come responsabilità e occasione per compiere passi condivisi, per essere radunati dall’orientamento verso una vita comune. Noi oggi onoriamo quella gente perché facciamo memoria della promessa in cui hanno creduto, continuiamo a crederci e continuiamo a camminare cercando di essere uniti nella condivisione del valori della democrazia, della partecipazione, della solidarietà. Noi cristiani chiamiamo “fraternità” questo camminare insieme».
Il pensiero che lega l’anniversario all’attualità è detto “a braccio”: «Sentiamo che in questo momento così particolare, in cui l’epidemia ci ha costretti a una sosta e ci ha motivato a molte preoccupazioni, noi, credo, siamo qui per credere ancora alla promessa, cioè a quella vocazione a camminare insieme, a creare un Paese unito, perché solo così può affrontare le sfide che intuiamo incombono su di noi non solo oggi per resistere al male, ma anche domani per ricostruire la convivenza civile».
Parole cui fa eco il presidente della Comunità ebraica che ricorda il sacrificio di tanti e annuncia che anche gli ebrei di Milano avranno un loro momento di celebrazione virtuale, il 26 aprile, per ricordare il 75esimo della rinascita appunto della Comunità e la riapertura della Sinagoga centrale di via Guastalla.
La vicesindaco Scavuzzo conclude sottolineando l’impegno del Comune: «Dietro queste lapidi ci sono delle storie, delle vite, delle scelte, e il percorso delle scuole e dei ragazzi ci ha sempre aiutato a mettere al centro questo ricordo legandolo sempre a quello delle persone. E allora, vorrei ringraziare le associazioni e anche voi, esponenti dei mezzi di comunicazione, chiedendovi di aiutarci a proseguire oggi con l’impegno di trovare nuove forme di comunicazione».