Lettera dalla “segregazione” dopo il discorso del presidente Sergio Mattarella
di Gianfranco
GARANCINI
C’è al museo del Prado, a Madrid, un quadro di Francisco Goya, nominato di solito come il colosso, ma più conosciuto come il pànico, dipinto intorno al 1808/1810, in cui si vede – sulle sfondo di un cielo cupo e tempestoso, pieno di fumi di nebbia, come sapeva fare lui – ergersi un colosso muscoloso che brandeggia minaccioso le braccia; e, sotto, un intero villaggio che fugge, con animali e carri, fugge via – fuori dalla tela: ciascuno pensa a sé, o ai suoi, in una corsa sfrenata, sottolineata dai colori violenti usati dal pittore.
Ci eravamo illusi: quelli che fuggono, oggi – non dal “colosso”, ma dalle proprie responsabilità – sono anche i Paesi dell’Unione Europea, non più unione, ma lizza di interessi egoistici contrastanti e contrapposti, come secoli fa, quando si inventarono i confini, quei confini che ora prepotentemente ritornano – a protezione del gruzzolo di ciascun popolo – davanti al panico della depressione economica che ci sta travolgendo, quando il virus separa le persone, ferma il lavoro, rende sempre più difficile la ricerca del pane (non ai supermercati, ma nel lavoro quotidiano per poterselo comperare).
La paura travolge la ragione; il pànico genera la perdita delle linee direttrici dell’esperienza. E, come ci dice ancora Francisco Goya, con una acquatinta/acquaforte di una decina di anni prima, conservata alla Biblioteca Nacional de Espana, sempre a Madrid, “il sonno della ragione genera mostri”: el sueno de la razòn produce monstruos.
Lo ha detto pochi minuti fa (scrivo all’ora di cena del 27 marzo) con la consueta, pacata chiarezza il presidente Sergio Mattarella: “Nell’Unione Europea la Banca Centrale e la Commissione, nei giorni scorsi, hanno assunto importanti e positive decisioni finanziarie ed economiche, sostenute dal Parlamento Europeo. Non lo ha ancora fatto il Consiglio dei capi di governo nazionali. Ci si attende che questo avvenga concretamente nei prossimi giorni. Sono indispensabili ulteriori iniziative comuni, superando vecchi schemi ormai fuori della realtà delle drammatiche condizioni in cui si trova il nostro Continente. Mi auguro che tutti comprendano appieno, prima che sia troppo tardi, la gravità della minaccia per l’Europa. La solidarietà non è soltanto richiesta dai valori dell’Unione ma è anche nel comune interesse”.
Che il primo cittadino di uno dei Paesi fondatori dell’Unione Europea sia sceso in campo con tanta chiarezza è certo indice della gravità della situazione, una situazione dove non basta la solidarietà, perché sempre più persone stanno perdendo il lavoro e – soprattutto – la fonte del proprio sostentamento (penso agli artigiani, agli operatori singoli, ai professionisti, alle imprese familiari…). Ma è anche ammonimento chiaro di una profonda, triste, pericolosa crisi di civiltà.
Lungo tutta la sua storia, la paura ha caratterizzato la cultura (le culture) dell’Occidente (è stato l’anno scorso ripubblicato in Italia il grande libro dello storico francese Jean Delumeau, La paura in Occidente, scritto nel 1978): ha causato guerre, violenze, crudeltà, tradimenti, disperazione; la tenebra della paura (specialmente, ma non solo, per le grandi pandemie che nei secoli XIV, XVI, XVII mieterono un terzo delle popolazioni europee del tempo) ha altresì, sempre, alimentato l’odio come strumento di violenta difesa delle civiltà, che – respingendo il diverso, lo straniero, lo sconosciuto, l’altro, o isolando il bisognoso, il povero, il malato – hanno creduto di preservare la propria purezza, la propria cultura, la propria comunità, la propria ricchezza, la propria salute.
In più, l’uso politico della paura, l’uso protezionistico della paura e sempre stato un sicuro strumento per cavalcare l’ignoranza delle masse (spesso indotta, e strumentalmente mantenuta) , e farne un’arma potente e crudele di potere.
Così con il coronavirus: ben presto i singoli Paesi hanno chiuso i loro confini, hanno espulso o tenuto lontani i cittadini di quei Paesi che più e per primi erano stati attaccati dalla malattia, in una sorta di caccia agli untori moderna, sì, ma uguale a quella, raccapricciante, raccontata – con freddezza di storico, e con partecipazione di cristiano – da Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame, che forse non fu mai amata molto dal pubblico e dai potenti, perché umilmente e onestamente affondava il coltello nelle carni del rimorso e della cattiva coscienza.
Una caccia all’untore, quella di oggi, che sembra ripetersi anche nel cuore della fragile cultura europeista. Dico fragile, perché proprio in questo frangente si sono ancor più rivelati i lati oscuri delle culture che si erano già manifestati di fronte alle domande di solidarietà che venivano per i migranti e per i richiedenti asilo, scacciati dalle loro case e dalle loro terre con violenza e disumanità (si pensi al destino della Siria, giardino del vicino oriente, e dei Siriani, fra i quali allignavano molte delle chiese cristiane più antiche, e più ricche di spiritualità). Anche in questo frangente la pretesa (o l’illusione) di proteggere i propri forzieri porta i Paesi di più antica tradizione (e ricchezza) commerciale – che pur erano stati tra i fondatori dello spirito comunitario, nei lontani tempi della comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio – a trattenere il braccio di fronte alla necessità impellente di dare, di fronte alla pandemia e alla profonda crisi economica che va generando, di elargire, distribuire, condividere, sostenere, aiutare, solidarizzare con quanti più, oggi, hanno bisogno, e vedono sempre più inaridirsi e sempre più lontana la fonte del sostentamento per sé, per la propria famiglia, e per le famiglie a venire dei propri figli.
Bene ha fatto il presidente Mattarella a richiamare alla necessità di “iniziare a pensare al dopo emergenza”: e tuttavia l’emergenza è oggi, e il bisogno è oggi. La storia non si dimenticherà certo degli egoismi e delle chiusure che spurgano dal lato oscuro delle culture e di quelle che continuano a chiamarsi “civiltà”; chiamerà i protagonisti di oggi a dar conto dell’affievolimento degli ideali e della crescente disperazione del futuro, verso la quale non hanno fatto non solo quello che avrebbero dovuto, ma quello che ben avrebbero potuto fare. Ma ancora una volta i capi dei governi nazionali non si stanno dimostrando, oggi, capaci di cogliere, capire, interpretare e tradurre in fatti, sùbito, i segni dei tempi.