Dopo l'aggressione a una giovane in un ascensore della Centrale, Stefano Padovano, criminologo dell'Università di Genova e della Cattolica, riflette sugli interventi necessari nei luoghi del degrado e della marginalità

di Stefania CECCHETTI

Stazione Centrale
La Stazione Centrale di Milano

Lo stupro di una giovane donna in Centrale ha riportato al centro del dibattito il tema della sicurezza a Milano, in particolare nella zona della stazione: «Da che mondo è mondo le stazioni sono luoghi “caldi” dal punto di vista della sicurezza e del degrado – commenta Stefano Padovano, criminologo all’Università di Genova e all’Università Cattolica di Milano – perché attorno alle stazioni si concentrano i soggetti più fragili e critici della società: dai senza dimora, ai mendicanti, ai piccoli criminali. Episodi come quello di qualche giorno fa a Milano sono capitati anche in altre città, sia grandi che piccole. E purtroppo continueranno a capitare, soprattutto ai danni dei soggetti più deboli, come donne, minori e anziani».  

Questo è il dato di partenza. Il punto, però, è un altro, secondo Padovano: «Il problema è che negli ultimi quindici anni le politiche di messa in sicurezza dei territori sono state trascurate nel nostro Paese, non solo a Milano. Sono state fatte delle azioni di riqualificazione urbana, senza che fossero accompagnate da azioni di rigenerazione sociale. Le nuove stazioni, come la Centrale, sono belle cattedrali nel deserto, se mancano le energie umane. Le tecnologie non bastano. Prendiamo per esempio l’installazione di telecamere: sono utili per le attività investigative, ma a reato già compiuto. Gli amministratori degli enti locali e lo Stato hanno fatto passare l’idea che le telecamere facciano da deterrente, ma non è così, tant’è che si continuano a registrare crimini».

Impiegare energie umane

Cosa si intende per energie umane mancanti, agenti di polizia e carabinieri? «Non solo – specifica Padovano -. Gli agenti fanno la loro parte, ma non basta. La sicurezza urbana è un pozzo senza fondo: mandiamo 100 agenti di più a Baggio e magari succede qualcosa alla Comasina o a Città Studi. Una politica della sicurezza vincente ha bisogno di interventi diversificati, non si possono trascurare la cura di alcuni aspetti urbanistici e il sostegno al vecchio welfare. Operatori sociali e volontari, alla fine degli anni Novanta e fino al 2010 circa sono stati la carta vincente di politiche che hanno dato i loro frutti nella gestione di microconflitti e di atti di microcriminalità diffusa. In quegli anni, molte amministrazioni locali, di diverso colore politico, hanno sostenuto buoni progetti di intervento, in coordinamento con le Regioni e le Prefetture, e basati sull’intervento in ambiti circoscritti».

Qualche esempio? «Bisogna interrogarsi su quale tipo di interventi e quali servizi mettiamo in atto sulle categorie problematiche e fragili che in certe ore della giornata popolano una certa zona. Se il problema sono i senza fissa dimora, chiediamoci se sappiamo chi sono i soggetti che gravitano su una certa area, quali tipi di servizi di presa in carico possiamo mettere in atto per loro, se siamo in grado di costruire una relazione con questi soggetti e magari di riuscire a toglierne qualcuno dalla strada».

Politiche insufficienti

Sul perché ci sia stata una involuzione nelle politiche sulla sicurezza Padovano è molto netto: «È uno degli aspetti della crisi della politica tout court. Dalla mia esperienza di consulente di diverse amministrazioni, di diversa appartenenza politica, posso dire che è molto più facile convocare una conferenza stampa per annunciare l’acquisto di telecamere, piuttosto che dare vita a interventi di natura sociale, che costano e danno risultati solo sulla langa distanza. Semplicemente, si sceglie di ignorare certi problemi. Ma i problemi ci sono. Soprattutto nelle grandi città, che fingono da imbuto di tutti i problemi sociali. A Milano tutto ha una eco maggiore, è ovvio».

Lo stupro della scorsa settimana ha evidenziato anche carenze urbanistiche nella progettazione della Stazione Centrale: «Quell’ascensore – conclude Padovano -, ancorato com’era in fondo a un corridoio, era destinato prima o poi ad accogliere un atto di aggressione. Ci sono strutture architettoniche che si prestano a diventare luoghi potenzialmente pericolosi. È intuitivo: angoli bui, zone isolate, devono essere evitati nella progettazione di uno spazio pubblico».

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