Nella mattina di Pasqua l’Arcivescovo, in Duomo, ha presieduto il Pontificale solenne. Nella benedizione in 3 lingue, oltre l’italiano, il dolore per gli attentati nello Sri Lanka e la vicinanza dopo l’incendio di Nôtre Dame
di Annamaria
Braccini
La desolazione per qualcosa che non c’è più, il senso di impotenza e di dolore di fronte ad attentati che colpiscono innocenti in preghiera nelle chiese, persino nel giorno di Pasqua, come è accaduto in Sri Lanka; l’impazienza concretissima di ricostruire templi e chiese. E, poi, quell’altra impazienza – forse oggi assai meno frequentata – di convertire il cuore.
È un incrocio di rimandi che attraversa i millenni, quello che annoda, con il filo d’oro della fede, la riflessione dell’Arcivescovo che presiede il Pontificale di Pasqua in Duomo, concelebrato dai Canonici del Capitolo metropolitano della Cattedrale cui si aggiunge il vicario episcopale per la Città di Milano, monsignor Carlo Azzimonti.
Nel giorno della «festa che dà origine a tutte le feste», come recita il Prefazio ambrosiano della domenica di Pasqua, davanti a tanti fedeli riuniti tra le navate, il pensiero del vescovo Mario va all’altra grande Cattedrale gotica d’Europa, Nôtre Dame, sfregiata dall’incendio di pochi giorni fa.
«Un’emozione ha convocato i popoli d’Europa davanti agli schermi, un sentimento condiviso, come feriti da un dramma, fa soffrire tutto il Continente. L’Europa si è sentita unita dal dolore per una rovina al patrimonio comune, al simbolo in cui si riconosce figlia di una storia di fede, d’arte, di convergere di risorse per edificare qualche cosa di memorabile per la gloria di Dio e per esprimere l’identità di una civiltà. Nôtre Dame brucia: l’Europa si è sentita impotente, inadeguata a difendere i suoi tesori, precaria anche in quello che sembrava invece definitivo».
Sono questi uomini smarriti, come accade spesso nel nostro ricco Occidente europeo che forse – suggerisce ancora l’Arcivescovo -, «si possono riconoscere nella donna in pianto all’esterno del sepolcro vuoto per l’esperienza di un amore che non riesce a salvare e la desolazione per l’assenza irrimediabile». La Maria di Màgdala del Vangelo di Giovanni, è, infatti, l’emblema di un’umanità in lacrime che reagisce al “lutto”, qualsiasi esso sia, in modo assai diverso. «Talora con uno slancio di intraprendenza e di orgoglio: ricostruiremo, abbiamo le risorse, i mezzi, la competenza. C’è una impazienza che, forse, assomiglia più alla presunzione che alla determinazione volonterosa», e, invece, c’è la «conversione dall’evento della Pasqua».
«La Chiesa, tanto spesso tentata di essere scoraggiata e triste, è chiamata a conversione. L’Europa desolata, risentita e rassegnata, l’umanità intera, rattristata e amareggiata, è chiamata a conversione».
Insomma, non basta un restauro di pietre e di legni, occorre una ricostruzione del cuore, seguendo l’unico legno di gloria che è la croce di Risurrezione.
«Non si tratta di dimostrare quello che sappiamo fare, quanta capacità di organizzazione possiamo esprimere, quante risorse possiamo mettere in campo, si tratta di portare un’aria nuova», scandisce, infatti, il Vescovo, indicando due punti-cardine. «La conversione che richiama Maria a rivolgersi a Gesù, la conversione che richiama la Chiesa a disporsi ancora a ricevere la forza dallo Spirito Santo, la conversione che richiama i popoli di Europa a intraprendere nuovi cammini, si può descrivere nei suoi due aspetti decisivi».
Se il primo è l’incontro con Cristo, il secondo è la responsabilità che ne deriva per tutti.
«La persuasione che siamo vivi, perché chiamati alla vita, che siamo chiamati alla vita perché siamo amati, che siamo amati per la decisione irrevocabile del Padre di renderci partecipi della sua vita, non deriva da una filosofia, ma dall’incontro con Gesù vivo. Questo è il principio, il fondamento e l’inesauribile sorgente di luce, di gioia, di carità, di pensiero, di arte, di civiltà da cui sono nate le sintesi teologiche e le cattedrali, i capolavori dell’arte e i miracoli della carità, la sapienza nell’interpretare la dignità della persona e l’impegno per edificare una società giusta, solidale, fraterna».
Da qui, la missione da compiere. «Andate a dire che siamo destinatari di una promessa di vita che vince la morte. Andate a ricostruire il convivere dei popoli edificato sulla parola di Gesù, con il suo stile. Così sarà possibile ricostruire una civiltà, ricostruire una fraternità. Così, forse, sarà possibile anche ricostruire Nôtre Dame, non come un monumento per i turisti, ma come una casa accogliente per mostrare un segno, una croce luminosa e dare al Continente, nel cuore dell’Europa, ragioni di speranza. Siamo radunati perché chiamati a conversione e a camminare verso il futuro: con queste decisive persuasioni rispondiamo alla chiamata di Cristo con la responsabilità di annunciare la vita di fede, principio di una vita nuova».
Infine, a conclusione del Pontificale, prima della benedizione cui è annessa l’indulgenza plenaria per facoltà ottenuta da papa Francesco, c’è ancora tempo per un augurio di pace e di speranza, formulato dall’Arcivescovo anche in francese, spagnolo e inglese, pur nel dolore per gli attentati vòlti a colpire i cristiani (un primo provvisorio bilancio parla di oltre 200 morti nell’attacco a tre chiese e altrettanti alberghi). «Sentiamo una particolare solidarietà per i nostri fratelli dello Sri Lanka che sono stati oggetto di attentati. Invochiamo per tutti la forza di costruire il bene e di rispondere al male con opere di bontà e di perdono. Chiediamo che il Signore benedica tutti».
Benedizione portata, poco dopo, all’“Opera Cardinal Ferrari”, dove l’Arcivescovo ha pranzato con oltre 300 ospiti e amici della Casa in situazione di difficoltà.