Nella notte di Natale, l’Arcivescovo ha presieduto la Veglia e la Celebrazione eucaristica in Duomo. «Vorrei che ciascuno di voi possa essere, per tutti, una benedizione di Dio», ha augurato al gran numero di fedeli presenti in Cattedrale

di Annamaria BRACCINI

Messa di Mezzanotte 2018

Nella notte di Natale, notte santa nella quale il figlio di Dio diventa figlio dell’uomo e il Verbo diviene carne, il richiamo, appunto, al “diventare”, si fa inno nelle parole dell’Arcivescovo, che presiede la Veglia e la Celebrazione eucaristica in Duomo. Inno di libertà per «coloro che accolgono la luce e sperimentano la grazia di diventare figli di Dio, lasciandosi avvolgere dalla luce e diventando essi stessi luce».
Un inno capace di divenire «cantico che può riscattare gli insulti e la rinuncia alla libertà e il suo disprezzo», dice ancora il Vescovo che, all’inizio della Messa – concelebrata da alcuni membri del Consiglio Episcopale Milanese, tra cui il vicario generale, monsignor Franco Agnesi e il vicario episcopale di Zona I-Milano, monsignor Carlo Azzimonti, unitamente al canonici del Capitolo metropolitano della Cattedrale con l’Arciprete, monsignor Gianantonio Borgonovo -, porta in processione e depone, ai piedi all’altre maggiore, la statua del Bambino
Forte e chiaro risuona, tra le navate in cui si affollano i fedeli, il messaggio. «Vorremmo coprire gli insulti di coloro che fanno della storia una selezione di racconti che dimostrano come la libertà sia l’origine di tutti i mali, la radice di tutte le tragedie; vorremmo smentire l’insinuazione di coloro che diffondono la persuasione che gli uomini e le donne liberi sono pericolosi e mettono in discussione il potere dei potenti; vorremmo contestare le imprese di coloro che agiscono per comprimere la libertà, perché è meglio che gli uomini siano convinti, con le buone o con le cattive, a eseguire i progetti di potenti, a rendere omaggio al potere di interessi altrui, a ridursi a ingranaggi che lavorano e non pensano, a ridursi a materiale di costruzione per uno splendore che non vedranno mai. Noi, invece, cantiamo il nostro inno alla libertà di coloro che contemplano la luce e si lasciano sorprendere dallo stupore, l’accolgono con gratitudine e, così, diventano figli di Dio. Sono uomini e donne liberi e, perciò, possono accogliere e prendere in se stessi quella vita che Dio vuole donare».
Così, il “diventare” diventa anche parola di benedizione per la storia.
«La liberazione, il riscatto di coloro che sono sotto la legge, può avvenire in un istante, ma l’edificazione di un popolo libero deve essere una lunga storia, tortuosa, contraddittoria, talora incerta, talora, spedita e coraggiosa, ma sempre una storia. Vorremmo ripeterci ogni giorno che questo giorno è benedetto da Dio, perché in questo giorno noi possiamo diventare ancora di più, ancora meglio, simili al Figlio».
Contro le maledizioni e le lamentele di coloro che vorrebbero evadere in un’indifferenza senza né carne né sangue; di fronte alle parole deprimenti di quelli che parlano del tempo come di un inevitabile logorio che consuma le forze, che stanca l’amore, che impone il declino del pensiero», vivere il tempo come benedizione, significa, allora, considerarlo come occasione per amare e per compiere il pellegrinaggio verso la terra promessa.
«Il cantico di benedizione del tempo e della storia scrive, infatti, le strofe irrinunciabili della gratitudine per il passato e della speranza nel guardare avanti».
E, infine, occorre leggere il verbo “diventare” «come un’esortazione alla pazienza, alla perseveranza, alla fedeltà, perché l’impegno non può essere solo entusiasmo, ma deve essere anche resistenza; l’amore non può essere solo innamoramento, deve essere anche fedeltà; e, così, tutto ciò che è umano – la preghiera, la ricerca della verità, la risposta alla vocazione -, tutto non può essere solo momento di grazia, ma tenace perseveranza». Un entrare nel tempo dell’amore che rivela la sua verità «quando l’amore può dire con sincerità di rimanere fedele nei giorni di sole e in quelli di pioggia e di nebbia; nei giorni che trascorrono e negli anni che passano».
È la bellezza della fedeltà che convince «della vocazione alta dell’amore coloro che ne rivendicano la provvisorietà, l’autorizzazione all’instabilità dei pensieri e degli affetti, la precarietà arbitraria e inaffidabile delle appartenenze».
«Amo il verbo diventare che racconta del Verbo di Dio che si è fatto carne, che è entrato nella storia e che, perciò, ha benedetto il tempo e ha dato testimonianza di fedeltà fino alla fine».
Poi, concludendo la Celebrazione, l’Arcivescovo formula ancora un augurio per il Natale – o, per usare un termine «meno generico e logoro», una benedizione del Signore «che sia di consolazione e conforto, un incoraggiamento per essere lieti. Vorrei che ciascuno di voi possa essere, per tutti, una benedizione di Dio».

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