In Duomo, in assenza di popolo, la Celebrazione della Passione del Signore è stata presieduta dall’Arcivescovo. Le prime due Letture sono state significativamente proclamate da un medico rianimatrice e da un infermiere del Policlinico
di Annamaria
Braccini
Le donne di Galilea, che osservano da lontano il Signore nella sua passione e morte di croce, lontane anche nel tempo da tutte le loro “sorelle” che, nei secoli fino a oggi, rivolgono lo sguardo e la parola al Signore, «perseveranti quando i discepoli sono fuggiti, continuando a guardare quando molti hanno distolto lo sguardo». Donne che «non hanno predicato, scritto Vangeli», ma che possono «parlare di quello che hanno visto e pensato, aiutando a capire per quale via si possa entrare nel mistero, come si possa rimanere fedeli, come si possa morire senza morire».
In un Duomo, come ormai sempre, desolantemente vuoto, con – alla dovuta distanza di sicurezza -, i Canonici del Capitolo e gli animatori della liturgia, l’Arcivescovo, nella Celebrazione della Passione del Signore, evoca così la presenza, nell’assenza, appunto delle donne. Attraverso figure diversissime, per come vissero, per ciò che fecero o fondarono, per come morirono.
È il Venerdì santo, con il Rito della luce, l’Inno, le prime due Letture tratte dal Libro del profeta Isaia, in cui leggere il destino del Servo di Dio fedele – Cristo -, proposte significativamente da Riccarda Russo, medico della rianimazione del Policlinico e da Alessandro Galazzi, infermiere di terapia intensiva presso lo stesso ospedale. Il Vangelo, prosecuzione del racconto della Passione di Matteo, è proclamato, come accade solo in questa Celebrazione durante l’intero anno, da Vescovo Mario. Lettura che si interrompe mentre in Cattedrale calano le tenebre e il silenzio, la campana annuncia la morte del Signore e si spoglia l’altare, e che riprende poi con il “velo del tempio che si squarcia, la terra che trema, e le donne che, appunto, osservano da lontano”.
L’omelia dell’Arcivescovo
Donne a cui l’Arcivescovo presta la sua voce. Scorrono così gli intensi versi poetici di Maria Luisa Spaziani e le parole di santa Vincenza Gerosa (fondatrice con Bartolomea Capitanio della Congregazione delle Suore di Maria Bambina), che amava ripetere “Chi conosce il Crocifisso sa tutto, chi non lo conosce, non sa niente”. Della giovane ebrea Etty Hillesum, morta non ancora trentenne in Auschwitz: “Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini”.
Ancora, l’ottocentesca Emily Dickinson e la contemporanea Alda Merini, poetessa dalla vita travagliata, scomparsa nel 2009, che così esprimeva il dolore: “Per coloro che muoiono nel nome tuo, apri le grandi porte del Paradiso e fa’ loro vedere che la tua mano era fresca e vellutata, come qualsiasi fiore, e che forse loro troppo audaci non hanno capito che il silenzio era Dio e si sono sentiti oppressi a questo silenzio che era solo una nuvola di canto”. 700 anni prima di lei, santa Angela da Foligno, annotava: “Chiunque vuole conservare la grazia non deve togliere gli occhi dell’anima dalla Croce, sia nella gioia sia nella tristezza”.
E Madeleine Delbrêl, mistica, riconosciuta venerabile, morta nel 1964, con la sua vocazione «a percorrere con Gesù la via della passione», una strada lastricata di faticose pazienze, “briciole di passione, che hanno lo scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di ucciderci senza la nostra gloria. Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso: ce ne sono di sgranati da un capo all’altro della vita. È la passione delle pazienze”.
La pazienza dolente di chi osserva da lontano fino a che scende il buio della sera e la notte che non vince perché – scrive Anna Achmatova – “Ero certa che saresti ritornato”.
Poi, è sempre l’Arcivescovo a portarsi nel Coro della Cattedrale, presso il tabernacolo che custodisce il reliquiario della reliquia della croce conservata in Duomo, posta sull’altare maggiore per l’adorazione, dopo il canto per la triplice ostensione della croce stessa, “Ecco il legno della Croce, al quale fu appeso il Signore del mondo”.
La preghiera universale – la più solenne dell’anno liturgico – con le sue 11 orazioni, tra cui le ultime due per coloro che soffrono e per i defunti, paiono un richiamo mai così doloroso all’oggi, come viene detto. «Quest’anno l’intercessione “Perché Dio salvi l’umanità da ogni male, allontani le epidemie”, assume un rilievo tutto particolare e provoca in noi tutti un fremito di profondo dolore e timore. Abbiamo davanti a noi gli effetti del Covid-19 e la strage di vite umane che la pandemia sta provocando in ogni parte del nostro fragile pianeta».