Storiee vicendeattornoalla tomba rinascimentaledel Medeghino,capolavororealizzatoda LeoneLeoninella cattedrale ambrosiana.

Testo di Luca FRIGERIO
Foto della Veneranda Fabbrica Duomo di Milano

Medeghino Leoni Duomo

Avvolto in una costante penombra, quasi timidamente riparata dagli sguardi dei visitatori più frettolosi, il monumento funerario di Gian Giacomo Medici detto il Medeghino, capitano di ventura vissuto nella prima metà del Cinquecento, si erge composto e solenne nel transetto meridionale del Duomo di Milano, insigne esempio dell’arte sepolcrale del tardo Rinascimento. Autore dell’opera è Leone Leoni, grande e singolare personalità di scultore, orefice e collezionista, che nella sua lunga e turbolenta vita coltivò in egual misura ambizioni artistiche e condanne per atti di violenza. E forse non è dunque un caso che una delle sue opere migliori sia proprio il monumento a un uomo d’armi spietato e senza scrupoli…

Anzi, lo splendido monumento milanese del Duomo, in verità, permette un’operazione forse curiosa, ma non certo ardita: evocare parallelamente le due vite, quella per l’appunto del Medeghino, marchese di Melegnano, fratello maggiore di papa Pio IV e zio di san Carlo Borromeo, e quella non meno singolare e altrettanto ricca di luci e ombre di Leone Leoni, cavaliere d’Arezzo e imperial scultore. Due vite movimentate, spregiudicate perfino, ma ben adatte a spiegare taluni aspetti della Lombardia del Cinquecento.

Il condottiero
Soprannominato “Medeghino” forse per via della professione medica esercitata da alcuni suoi parenti, Gian Giacomo nasce a Milano nel 1495, da una famiglia di piccola nobiltà, neppure tanto agiata, che non ha alcun legame con i ben più noti Medici di Firenze. Primogenito di quattordici figli, spetta a lui provvedere alla famiglia alla morte del padre: ma lo fa a suo modo, mostrando subito di quale tempra sia dotato. Il Morone, spregiudicato cancelliere di Francesco II Sforza, lo assolda infatti per fare certi “lavoretti” non troppo puliti, come far sparire gli scomodi pretendenti al ducato milanese. Racconta il Moriggia che come ricompensa Gian Giacomo abbia ricevuto il castello di Musso, sul lago di Como, diventando in pochissimi anni signore incontrastato del Lario.

È così che il Medeghino inizia la sua personale guerra contro i francesi del Lautrec e i Grigioni suoi alleati, che mirano anch’essi al controllo delle sponde del lago di Como, guadagnandosi così anche la fama di “campione” nell’arginare l’avanzata luterana! Al punto che lo Sforza, per rientrare in possesso dei domini lariani, deve scendere a patti con l’ormai potente “ribelle” concedendogli, nel 532, il marchesato di Melegnano e una favolosa ricompensa in denaro.

Il temerario avventuriero si trasforma così in abile uomo politico. Ma Gian Giacomo non rinuncia alla mischia. Tra i governatori spagnoli c’è chi gli dà fiducia, ponendolo alla guida della difesa del ducato di Milano, e chi invece vorrebbe toglierlo di mezzo; motivo per cui il Medeghino si ritrova, per quasi due anni, ospite delle prigioni ambrosiane. Viene liberato perché si ha bisogno di un condottiero capace di sedare una pericolosa rivolta nelle Fiandre. Compito che il Medici porta a termine con tale fermezza e abilità da essere poi inviato anche in Ungheria contro i turchi, ottenendo addirittura di essere nominato viceré di Boemia.

Tornato in Italia, con un pugno di uomini si impadronisce di Parma e, nel 1553, il duca di Toscana, ricorre ancora una volta a lui, «l’uomo più astuto che si trovasse nel mestiere della guerra» (come dice il Muratori), per assediare Siena. Per l’ormai maturo capitano di ventura è il trionfo, e sulla sua corazza d’ora in poi luccica la più insigne tra le decorazioni imperiali, quella del Toson d’oro.

L’artista
E il “suo” scultore, invece? Già al suo tempo Leone Leoni raggiunse una fama strepitosa, sia per le sue doti artistiche sia per le rocambolesche vicende della sua vita. Una vita violenta e turbinosa, svolta a un ritmo addirittura frenetico, tra fortune clamorose e rovesci disastrosi. Leoni ha spesso aggiunto al suo nome la dizione «di Arezzo», considerandola evidentemente più nobilitante e adatta a un grande artista: in realtà era nato nel 1509 a Menaggio, sopra Como, proprio là dove, per un capriccio del destino, incomincia la sua fortuna quel Gian Giacomo Medici che sarà poi oggetto della sua opera più importante.

Di famiglia molto povera, Leoni si impegna innanzitutto nell’apprendere la difficile arte orafa, ma non è noto dove e con chi abbia svolto il suo apprendistato. Nel 1537, quando ha già 28 anni, lo troviamo a Venezia, dove appare in stretto contatto con alcuni degli artisti e dei letterati allora emergenti, da Tiziano al Sansovino. L’anno successivo si trasferisce a Roma, dove viene nominato incisore presso la zecca pontificia. Ed è proprio qui che esplode la rivalità, su un piano sia artistico sia personale, con Benvenuto Cellini, di indole altrettanto violenta e focosa: i due giungono più volte a minacciarsi di morte, e Leoni tenta perfino di passare alle vie di fatto. Condannato ai lavori forzati in una galera pontificia, l’artista comasco trova quindi rifugio a Milano, dove assume l’incarico di maestro incisore al servizio della corte di Spagna, mentre l’imperatore Carlo V lo nomina «cavaliere cesareo», commissionandogli numerose medaglie e sculture.

Nel capoluogo lombardo Leone Leoni vive nella celebre Casa degli Omenoni, un edifico unico per l’originalità della concezione e la bizzarria dello stile: è qui, infatti, che egli realizza non solo la maggior parte delle sue opere, ma anche il primo grande museo privato del tempo, con opere di Leonardo, Tiziano, Correggio, e calchi delle più famose statue antiche e contemporanee. Ed è sempre a Milano, nel 1559, che avviene l’ennesimo episodio violento di cui è protagonista il Leoni, quando tenta di assassinare nientemeno che il figlio del suo grande amico Tiziano. La cosa sorprendente, tuttavia, è che simili disavventure non intralciarono mai in alcun modo la sua carriera artistica, che continuò con esiti sempre più brillanti.

Il monumento
L’incarico di erigere il monumento funebre di Gian Giacomo Medici fu dato al Leoni dallo stesso papa Pio IV, nel 1559. Ma per lungo tempo si è creduto che il progetto originario fosse di Michelangelo, poiché così sosteneva il Vasari nelle sue Vite. Solo alla fine del secolo scorso si è chiarito l’equivoco sulla paternità dell’opera: il Leoni, infatti, come si intuisce da alcune lettere, si limitò a far approvare i suoi disegni dall’ormai anziano Buonarroti, così come lo stesso pontefice desiderava.

Il monumento al Medeghino nel Duomo di Milano, del resto, si rifà chiaramente ai caratteri stilistici dei modelli michelangioleschi, dalle cappelle medicee di San Lorenzo a Firenze alla tomba di Giulio II in San Pietro in Vincoli a Roma. In pieno Cinquecento, infatti, la tradizione iconografica del sepolcro rinascimentale si era affermata con una serie di monumenti a carattere prettamente elogiativo e trionfale, orientati a consolidare nei secoli la fama dei committenti: pontefici, alti prelati, principi o potenti in vario grado. Con questo lavoro Leone Leoni ebbe l’occasione per impegnarsi in una composizione articolata, in cui architettura e scultura si fondono in una struttura unitaria, realizzando un’opera mobilissima, grave ma senza ostentazioni eccessive di compassatezza, elogiativa ma senza sfarzo.

Classico è il frontespizio trionfale, in marmo. Il registro inferiore è spartito da quattro colonne di marmo screziato bianco e nero, inviate allo scultore appositamente da Roma dal pontefice stesso. Nel centro, in una nicchia, si erge isolata la statua del Medici, rivestito di un’armatura alla romana. Il Medeghino con la destra trattiene un lembo del mantello militare, mentre con la sinistra si appoggia a un elmo posato su un tronco d’albero (su cui si arrampica una lucertola, simbolo di chi anela alla luce della Verità e della Giustizia). La gamba sinistra, spostata in avanti in modo vistoso, ha fatto sostenere ad alcuni che il condottiero fosse in realtà claudicante, cosa ancor oggi incerta. Sta di fatto che l’atteggiamento nulla toglie alla virile immagine del guerriero, colto qui in un momento di riflessione, noto perle sue imprese brigantesche ma dotato al massimo grado di coraggio e audacia.

Ai lati della figura di Gian Giacomo, in due altre nicchie, sono raffigurate, sedute, le allegorie della Pace e della Virtù (militare, s’intende!). Le due sculture, quasi colte in un momento di tristezza, evidenziano lo sguardo rivolto in basso il vuoto lasciato dalla scomparsa del Medeghino. Non grida, non lacrime: solo un contenuto, accettato dolore; ed è questa l’unica nota che ci riconduce ali stilemi del monumento funerario.

Due bassorilievi, sempre in bronzo, rappresentano l’Adda e il Ticino (ovvio riferimento ai luoghi che videro le gesta del Medici), mentre, innalzate su due colonne più alte delle precedenti, sono le statue della Prudenza e della Fama. Nella trabeazione vi è un altro bassorilievo in bronzo, con un’Adorazione del bambino. La Sera e l’Alba, personificate da due figure femminili, reggono infine lo stemma del Medici.

Nella parte centrale del monumento, il Leoni aveva previsto di collocare un sarcofago in marmo rosso per accogliere le spoglie del Medeghino, che tuttavia venne eliminato nella fase finale dei lavori. Sappiamo infatti che Carlo Borromeo lo fece rimuovere, attuando le nuove disposizioni emanate dal Concilio di Trento in fatto di sepolture nelle chiese. E chissà cosa pensava, il santo arcivescovo, di questo suo zio così “turbolento”…

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