Nella sua prima meditazione ai giovani preti in pellegrinaggio in Sicilia l'Arcivescovo ha mostrato i tratti fondamentali e quotidiani del martirio e il legame con la verginità
di Davide MILANI
«Secondo l’insegnamento di Cristo lo stato di persecuzione è lo stato normale per la Chiesa nel mondo: essa dovrebbe ricordare che è partecipe di una grazia che le è stata promessa». Con le parole di von Balthasar da Cordula ovverosia il caso serio, ha preso avvio a Palermo la prima meditazione del cardinale Scola per i 120 giovani preti (poco più della metà di quelli ordinati in questi ultimi 10 anni) in pellegrinaggio in Sicilia per conoscere la prima vittima della mafia dichiarato beato, il martire don Pino Puglisi.
Scola ha spiegato anzitutto come intende la Chiesa la figura del martire: «Dal Nuovo Testamento e dai padri della Chiesa, è vissuta e spiegata alla luce del rapporto che i credenti stessi sono chiamati ad avere con Cristo, in termini di sequela. Il criterio fondamentale per comprendere il senso cristiano del martirio è dunque la chiamata a seguire Gesù Cristo, al discepolato che arriva fino alla imitazione del suo destino di testimone fedele e verace».
Occorre però non cadere in equivoci pericolosi, ha evidenziato l’Arcivescovo di Milano: «La Chiesa ha sconfessato il martirio volontario, atteggiamento che falsa la natura stessa del martirio, il quale per essere autentico martirio non deve essere sollecitato dalla persona stessa; nessuno può pretendere questo dono e tantomeno provocarlo. Il cristiano non cerca mai direttamente il martirio, ma matura nell’esperienza del discepolato, la disponibilità a offrire la vita in unione al sacrificio redentivo di Cristo».
La forma eucaristica del martirio cristiano è il suo criterio di verità: «Il rapporto tra morte,-risurrezione di Cristo ed Eucaristia risulta illuminante il senso cristiano del martirio. Infatti, nella istituzione dell’Eucaristia, Cristo stesso, di fronte al suo destino di morte, anticipa nel sacramento il dono del suo corpo e del suo sangue, mostrando così il carattere di libera dedizione di quella morte, in obbedienza al Padre. Nell’Eucaristia l’atto violento della crocifissione muta di significato: diventa il dono che Cristo, l’Innocente assoluto, fa di se stesso per la redenzione di tutti gli uomini».
Entrando nello specifico del loro stato di vita, il Cardinale ha poi mostrato ai giovani preti il legame tra martirio e verginità: «Il martire, con il dono eucaristico della propria vita, e il vergine che realizza il dono totale di sé, rinunciando all’esercizio dell’aspetto genitale della propria sessualità e alla generazione di figli dalla propria carne, testimoniano in forma diretta la speranza certa della vittoria di Cristo sulla morte. Il martire, che accetta la morte, afferma in Cristo risorto il senso ultimo della vita. Coloro che per amore di Cristo scelgono la verginità, mostrano che nel mistero pasquale è insita una fecondità più forte della morte, capace di indicare anche a coloro che si sposano che il senso della generazione della vita è per la risurrezione e la vita eterna, che già inizia nel Battesimo».
C’è poi per l’Arcivescovo una forma quotidiana di martirio: essa consiste «nel vivere le circostanze della vita quotidiana come luogo della testimonianza feriale della fede. La grande sfida per ciascuno si gioca innanzitutto nella pazienza con cui portiamo con coraggio il peso di ogni giorno, da come viviamo gli affetti, il lavoro, il riposo e la festa, l’impegno, la vita e la morte, la malattia, l’educazione, la giustizia e la solidarietà. In una parola, dipende da come portiamo la fatica del tempo. Così si comprende come la stessa testimonianza sia molto più che un buon esempio. Questo rischia sempre di tenere al centro la persona che lo esercita. La testimonianza deve giungere fino alla conoscenza e alla comunicazione della verità che passa attraverso la libertà di ognuno e lo espone nel rapporto quotidiano con gli altri».
Intersecando un tema di urgente attualità, Scola ha parlato di un’altra falsa forma di martirio: quella degli uomini-bomba: «Ci siamo abituati a sentir chiamare “martiri” gli “uomini bomba”, coloro che spesso per motivi religiosi – per lo più di ispirazione islamista – danno la morte a loro stessi, per uccidere con tale gesto più persone possibili tra civili inermi. Perché in questi casi non possiamo parlare in alcun modo di testimonianza e di martirio? L’attentatore suicida non può essere un testimone-martire, perché decide positivamente di prescindere dalla sofferenza della vittima, rivelando nello stesso tempo un disprezzo radicale per la sua stessa persona, annullando tragicamente la libertà delle persone in gioco. L’atto suicida, che semina morte, non può essere atto di testimonianza e di martirio, perché rende se stesso colpevole della morte propria e altrui».
Due parole sono fondamentali per comprendere l’autenticità e la grandezza del vero martire: perdono e comunione. Ha spiegato ancora l’Arcivescovo: «Il martire coinvolge l’aguzzino nel dono di se stesso, sigillato spesso esplicitamente o implicitamente dal perdono del proprio carnefice. E come nel caso delle quattro suore di Madre Teresa di Calcutta trucidate nello Yemen, nel martire brilla un altro elemento, il suo carattere comunionale. Nonostante il pericolo per la loro vita, le suore decidono di rimanere insieme nel luogo della loro missione. Ciò che rende possibile questa testimonianza è la comune appartenenza ecclesiale. Seguire Cristo fino al martirio è sempre un rimanere insieme, un riconoscere di essere stati da Cristo messi insieme a formare un solo corpo».