La cronaca dell'indimenticabile visita di Giovanni Paolo II nella colonia di lebbrosi che Marcello Candia e monsignor Aristide Pirovano riportarono alla vita
di Mauro COLOMBO
ha collaborato Angela Leonardi
L’8 luglio 1980 a Marituba faceva molto caldo. Quando Giovanni Paolo II arrivò, una gran ressa di autorità, giornalisti e fotografi nascosero alla sua vista i lebbrosi sulle carrozzine e sulle lettighe. Il Pontefice chiese incuriosito: «Ma i lebbrosi, dove sono?». Improvvisamente in mezzo alla muraglia umana sbucò il moncherino di una lebbrosa adagiata su un carretto. Karol Wojtyla si chinò, strinse quel “braccio” e arrivò finalmente dalla lebbrosa. Il primo di una lunga serie di gesti di affetto e di tenerezza.
Iniziò la messa attorno alla piccola chiesa di Nostra Signora di Nazareth. Nella piazza erano radunate migliaia di persone. Mentre monsignor Aristide Pirovano concelebrava con il Papa, Marcello Candia guidò la carrozzina di Adalucio Calado, il leader dei lebbrosi, che doveva porgere il benvenuto a Giovanni Paolo II.
Adalucio disse al Papa che la sua visita era la «felicità delle felicità», una «ulteriore benedizione, perché le benedizioni che abbiamo ricevuto dal nostro Dio e Signore sono numerose». In un luogo «dove esistono il dolore e la sofferenza, ma anche albergano la fede, l’amore e la gioia», arrivò a dire: «Siamo dei privilegiati, perché la Chiesa è presente in mezzo a noi con la sua azione evangelizzatrice, catechistica, direttiva, di conforto, occupandosi dell’anima, ma anche delle questioni materiali».
A Giovanni Paolo II Adalucio chiese di pregare perché i malati avessero «il balsamo dell’accettazione della sofferenza»: un’accettazione non passiva, ma che spingesse a «lottare per un miglioramento fisico e sociale», «senza rancore e senza odio». Salutò il Papa chiamandolo «diletto padre, prezioso amico, carissimo fratello Giovanni Paolo II» e affidò alle sue mani una piccola offerta, «frutto del nostro dono d’amore a favore di un seminarista povero che sceglierete a vostro piacere».
Le parole di Adalucio toccarono profondamente il Pontefice, che rivolse all’assemblea un discorso molto affettuoso. Definì l’incontro «una grazia»: «Per me siete persone umane, ricche di una dignità immensa che la condizione di persona vi dà, ricchi ciascuno della fisionomia personale, unica e irripetibile, con cui Dio lo ha fatto». Con una semplice frase commosse tutti: «Siete ora e lo sarete da qui in avanti per sempre miei amici molto cari».
Le parole di Giovanni Paolo II furono innanzitutto «di conforto e di speranza». «La malattia è veramente una croce, una prova che Dio permette nella vita di una persona», non vista però «come una cieca fatalità» e neppure come «una punizione», ma come «sorgente di salvezza, di vita o di risurrezione per il malato stesso e per gli altri, per l’umanità intera».
Con un parallelo fece fremere i presenti: «Cristo ha provato sulla propria carne la sofferenza. La morte in croce lo provò duramente: fu sfigurato, senza apparenza umana. Non nascose la sua sofferenza, quando era più atroce pregò il Padre che allontanasse il calice. Ma una parola rivelò quanto era nel profondo del suo cuore: “Non si faccia la mia volontà, ma la tua”».
E quindi un appello: «Non isolatevi per causa della vostra infermità», perché «nulla è meglio del sentirvi inseriti profondamente nella comunità degli altri fratelli e non tagliati fuori da essa»; a questa comunità «voi potete offrire, sul piano umano, il contributo dei valori che avete ricevuto da Dio», un capitale che «sarebbe una grande pena disperdere». Di conseguenza, «fate della vostra condizione di ammalati un gesto missionario di immensa portata».
Karol Wojtyla concluse con un invito alla fiducia: «Il Papa, assieme a tutta la Chiesa, vi stima e vi ama. Egli assume davanti a voi e con voi l’impegno di fare tutto quanto sarà in suo potere per voi e in vostro favore». A rappresentare questo impegno e questa presenza spirituale, i medici, gli infermieri, gli assistenti, i religiosi e «il caro fratello monsignor Aristide Pirovano, vostro grande amico».
La messa proseguì mentre la temperatura superava abbondantemente i quaranta gradi. Il Papa sudava a profusione, ma non si sottrasse all’abbraccio festoso dei lebbrosi, che cantavano: «Uba, uba, uba, viva o Papa de Marituba!». Prese il microfono e rispose: «Ol, Ol, Ol, Marituba muito sol!». E continuò a cantare e gridare fino alla fine della messa, un po’ in italiano e un po’ in portoghese.
Al termine di quella giornata il Papa baciò in fronte Marcello Candia e gli disse: «Ho tanto sentito parlare di lei!». E a monsignor Pirovano confidò: «Caro padre Aristide, sappia che io la invidio!».