Col flusso dei migranti dirottati verso i Balcani e il sistema degli hotspot, ora la maggior parte di chi arriva a Milano decide di rimanere. E Caritas Ambrosiana ha già accreditato 240 posti (150 messi a disposizione da parrocchie e 90 offerti da istituti religiosi)
di Francesco CHIAVARINI
Da qualche giorno a Casa Suraya non si sente più parlare in pidgin, l’inglese meticcio dei nigeriani. Nel centro di accoglienza per richiedenti asilo, gestito dalla cooperativa Farsi Prossimo negli spazi dell’Istituto delle Suore della Riparazione, i vecchi ospiti – per lo più famiglie provenienti dal Paese africano – sono state tutte ricollocate nelle parrocchie. Al loro posto sono arrivati gli eritrei. Il cambio della guardia tra i profughi accolti è la conseguenza di diverse ragioni, internazionali e locali.
Col cattivo tempo il Mediterraneo è diventata una via ancora meno sicura per giungere in Europa. Il flusso dei migranti si è quindi spostato lungo la rotta balcanica: Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Slovenia. Un percorso praticato già da tempo, ma da quest’inverno diventato via preferenziale. Inoltre il nuovo sistema degli hotspot (i centri di identificazione voluto dalla Ue nel sud Italia) ha aggiunto un ulteriore filtro e frena, almeno per ora, l’onda degli arrivi nel capoluogo lombardo. Il combinato disposto di questi due fattori ha fatto sì che Milano abbia smesso da qualche tempo di essere utilizzata da migranti e profughi come tappa intermedia in cui sostare per riorganizzare il proseguimento del viaggio, in particolare verso Germania e Svezia: oggi chi arriva nel capoluogo lombardo, per lo più, decide di rimanere. Dei 600 ospiti accolti nei centri di Milano solo il 3% è attualmente costituito da “transitanti”. Fino a qualche mese fa la proporzione era esattamente opposta.
Nel frattempo sta inoltre diventando operativo il piano di accoglienza diffusa promosso alla fine di questa estate dalla Diocesi. Grazie alle accelerazioni imposte dal Ministero alle Prefetture, a Milano e nelle provincie di Varese e Lecco Caritas Ambrosiana ha potuto accreditare già 240 posti: 150 messi a disposizione dalle parrocchie e 90 offerti dagli istituti religiosi che hanno aderito all’appello lanciato a settembre da papa Francesco e dal cardinale Scola. L’allestimento di questi mini-centri, collocati per lo più in appartamenti, e dunque capaci di ospitare nuclei familiari o al massimo 4-5 persone, ha permesso di liberare o alleggerire le strutture di prima accoglienza, tra le quali per esempio Casa Suraya.
Ora nelle parrocchie potranno così partire anche i percorsi di integrazione. Contando oltre che sui servizi, stabiliti dalle convenzioni, anche sul contributo dei volontari e della rete di rapporti delle comunità: corsi di lingua, formazione professionale, ricerca attiva del lavoro. Un approccio che si è dimostrato vincente già durante la prima grande emergenza, quella del 2011-2013, proveniente per lo più dal Nord Africa.
Dopo i mesi passati, si è dunque finalmente entrati in una fase nuova. Per di più la Diocesi può disporre di una sistema di accoglienza che complessivamente conta più di mille posti, capaci per il momento di garantire un’accoglienza ordinata e avviare percorsi virtuosi nelle comunità per l’inserimento almeno di quanti otterranno il riconoscimento del diritto di asilo e dunque un permesso di soggiorno.
Tutto però potrebbe cambiare di nuovo. Con la ripresa degli sbarchi nella prossima estate, i centri potrebbero entrare di nuovo in sofferenza. Inoltre Milano potrebbe trovarsi a fare i conti con i migranti respinti dagli hotspot, ma non rimpatriati, i quali, senza un permesso di soggiorno, sarebbero clandestini a quali non si potrà offrire nessuna vera opportunità di inserimento.