In uscita in questi giorni il volume edito da In dialogo che offre una raccolta di testi del Cardinale, quasi tutti inediti, che vanno dal 1969 al 1998 disegnando una parabola intensa sul significato della vita di fede e della testimonianza. Pubblichiamo un’anticipazione

Martini_Cristiani coraggiosi

Cristiani coraggiosi. Laici testimoni nel mondo di oggi (In dialogo, 192 pagine, 15.90 euro), è in questi giorni nelle librerie. Il volume offre una raccolta di testi di Martini, quasi tutti inediti, che vanno dal 1969 al 1998 disegnando una parabola intensa sul significato della vita cristiana e della testimonianza nel mondo. Introduzione di Franco Giulio Brambilla e un testo di papa Francesco. Pubblichiamo in anteprima uno stralcio.

 

Il cristiano che vive in Cristo, che ha ricevuto da lui il dono dello Spirito, ha normalmente dei “frutti”: carità, bontà, gioia, benignità, pace, pazienza […]. Questi “frutti” cominciano a definire il cristiano anche in rapporto all’ambiente, ma sono solo “frutti”, cioè derivazioni del suo lasciarsi definire, lasciarsi condizionare soltanto da Cristo. […]

Il cristiano, quindi, si manifesta come tale di fronte agli altri perché vive in un certo modo e perché proclama chiaramente il perché del suo vivere così. […] Potremmo così anche abbandonare il tentativo di diversificarci, se ci poniamo in un contesto di impegno temporale: non facciamo niente “più” degli altri, niente che non debba già fare ogni uomo, riguardo alla giustizia, alla carità, al rispetto della libertà. E, infatti, il Nuovo Testamento non sembra essersi affatto preoccupato di dare delle direttive pratiche di comportamento in imprese di questo genere […]. È chiaro, tuttavia, che una risposta così rischia di essere fraintesa e di confondere le idee.

Forse ci sono dei livelli successivi da cercare: nel suo impegno terreno il cristiano deve in qualche modo rispondere alla domanda che gli viene dagli “altri”: «Che cosa fate di più o di diverso da noi?».

Sarebbe presunzione voler dare una risposta definitiva, ma occorre almeno capire che come cristiani abbiano un’esigenza di assoluta limpidità nell’uso dei mezzi e dei fini: quella che Gesù chiama l’occhio limpido, “puro”, il quale vede fino in fondo il significato, il perché dei fini cui si tende, dei passaggi intermedi, degli strumenti che si usano. È vero che, essendo questa limpidità obbligatoria per tutti, anche qui si potrebbe dire che non si fa niente di diverso. Ma alla lunga – cioè in tempi lunghi, non verificabili in situazioni contingenti o ristrette – questa limpidità sembra possibile soltanto a chi sa fino in fondo ciò che vuole e che senso ha il nostro agire umano fino a ciò che lo trascende. E questa limpidità – che è data al cristiano come esigenza e come dono dello Spirito, che apre alla speranza verso il regno di Dio definitivo, termine di tutte le attese dell’uomo – permette al cristiano che la implora come grazia di fare molte cose diverse, pur non facendone nessuna di diversa.

Ne1 suo aspetto positivo, ci aiuta a caricare tutte le energie sane portandole sulla linea dell’impegno, distogliendole da tutto ciò che è frammentario, episodico, particolare, contrariamente a quanto avviene spesso nelle iniziative umane, che si esauriscono nel fare qualcosa, si stancano e passano a qualcos’altro. C’è poi – importantissimo – l’aspetto negativo, che consiste nello “smitizzare” – la parola è di moda, e non vorrei fosse fraintesa – costantemente tutti i mezzi e tutti i fini che si pongono come assoluti. […] È compito del cristiano mostrare come il raggiungimento di un fine parziale non esaurisca affatto la carica dell’impegno, ma possa anzi svilirla e sfociare in una nuova delusione. […] Il cristiano dovrebbe avere tutto questo come carisma proprio, perché lo Spirito lo guida continuamente a vedere il rapporto di ciò che passa con ciò che resta, di ciò che è figura con ciò che è sostanza. Se il cristiano è definito soltanto in rapporto a Cristo, egli sa che tutto ciò che non è Cristo è soltanto relativo e, qualora sia isolato in una situazione statica, delude e porta con sé i germi della morte. Il cristiano deve essere capace di portare tutto all’unica relazione con Cristo, che sola rimane per sempre valida.

[…] È evidente che il cristiano, perché è di Cristo, deve vivere nello spirito di Cristo: nello spirito cioè delle beatitudini, in quello che Paolo chiama lo spirito della «forza nella debolezza», del «vincere il male col bene». Questo spirito porta qualcosa di completamente nuovo nel nostro modo di agire. L’agire mondano ha la limitazione intrinseca di credere al solo rapporto di causa efficiente come unico principio ragionevole: norma dell’agire umano è prevedere, calcolare ciò che occorre, metterlo in opera per ottenere così risultati adeguati. Ciò è senz’altro vero da un punto di vista umano. Ma il cristiano ha il dono di intuire anche che, da un altro punto di vista, ciò non è vero e non basta: nelle cose che riguardano l’uomo e il suo progresso, non si va avanti solo per un puro rapporto di efficienza. […] Questa realtà è già inserita nel destino dell’uomo, è scritta nella vita umana dal volere di Dio, ma non è rivelata pienamente se non in Cristo, mediante la sua morte e risurrezione; questa legge il cristiano ha la missione di capire e di testimoniare, per far sì che l’impegno umano – che spesso si trova davanti lo scacco – non diventi un enigma e una disperazione.

Potremmo quindi affermare, un po’ paradossalmente, che il cristiano non ha niente di diverso da dire per quanto riguarda la pura efficienza e la produttività, ma che dal punto di vista dell’inefficienza e dell’improduttività il cristiano ha da rilevare il mistero della morte e risurrezione di Cristo, che ci fa capire come occorra morire per vivere: tale capacità è una grazia di Dio, che non viene dal ragionamento, ma soltanto attraverso il dono dello Spirito.

[…] In conclusione, dobbiamo arrivare a mostrare – come testimoni fedeli di Cristo – che la nostra speranza in lui non è vana e che il servizio dell’uomo non si chiude nel mondo, ma si apre nel dono della vita oltre la morte. E per la nostra testimonianza non dobbiamo sperare nessun riconoscimento, se non quello che ci presenta il Nuovo Testamento, cioè la persecuzione e il martirio.

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