Il cardinal Tettamanzi nella sua omelia ha richiamato i tratti essenziali della vita di don Carlo e in particolare il suo «carisma di carità intelligente e coraggiosa»
di Luisa BOVE
«Non c’è al mondo che una tristezza: quella di non essere santo», ripeteva spesso don Carlo Gnocchi. Il tema della santità era sempre presente in lui, invitava i ragazzi degli due oratori di Cernusco sul Naviglio e di San Pietro in Sala a Milano, in seguito anche gli alunni del Gonzaga, a una vita sempre più santa.
Oggi la Chiesa ha proclamato beato il sacerdote ambrosiano proponendolo come modello da imitare: «Ci vuole santi», ha detto infatti il cardinal Tettamanzi durante l’omelia, «come lui è santo». E ha aggiunto: «Don Carlo ha vissuto la sua vocazione come impegno leale nel mondo» e mai nel segno del pessimismo o della paura. E allo stesso impegno dimostrato da don Gnocchi oggi l’Arcivescovo invita tutti i credenti: «Amiamo il nostro tempo, impegniamoci nel nostro mondo, portiamo in tutti gli ambienti della nostra vita le speranze umane e la “speranza grande” che viene da Cristo, il vincitore della morte e di ogni male».
Nel 1945, ha ricordato Tettamanzi, don Carlo scriveva a un amico sacerdote: «Non desidero che la mia santificazione, dalla quale sono infinitamente lontano. Forse mi manca il coraggio delle decisioni supreme eppure comprendo che oggi solo la carità può salvare il mondo e che ad essa bisogna assolutamente consacrarsi». Nonostante allora don Gnocchi si sentisse lontano dalla santità, a 50 anni dalla sua morte la Chiesa lo smentisce proclamandolo beato. In realtà tanti alpini e tanti ospiti delle sue case (orfani, mutilatini, mulattini, poliomieliti…) lo consideravano già “un santo”.
A svelare il “segreto” della santità di don Gnocchi è stato oggi in piazza Duomo mons. Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi che al termine della celebrazione ha detto che «fu il suo amore per Cristo» a renderlo tale. Quel Cristo che don Carlo – come ha ricordato l’Arcivescovo – ha riconosciuto nel volto dei suoi alpini, ma anche «in ogni bimbo violato dalla ferocia della guerra, in ogni mutilatino vittima innocente dell’odio, in ogni mulattino frutto della violenza perpetrata sull’innocenza della donna, in ogni poliomielitico piegato nel corpo dal mistero stesso del dolore».
Per rispondere alle esigenze di tante vittime innocenti don Gnocchi realizzò una grande opera. «Ebbe infatti una energia creativa», ha detto ancora mons. Amato, «una imprenditorialità tutta milanese nel trovare mezzi e persone per far crescere e prosperare quella che lui chiamava “la mia baracca”». Ora la sua eredità è rappresentata dalla Fondazione che porta il suo nome e che conta solo in Italia 28 centri.
Oggi la figura di don Carlo, ha concluso il prefetto, è ancora di «grande attualità», questo prete ambrosiano ormai beato è come un «profeta di speranza e come eroe della carità, egli continua a ispirare impegno e imitazione».