La sociologa della Cattolica rilegge il Discorso alla città anche alla luce della sua esperienza di vita personale e familiare, da moglie e madre di cinque figli naturali e di uno in affido
di Pino NARDI
«La misericordia è una giustizia con le porte aperte, rinfrescata e rinnovata dal soffio dell’amore. Anche la famiglia vive se tiene le porte aperte». Chiara Giaccardi commenta così il Discorso alla città del cardinale Scola. Docente di Sociologia e antropologia dei media alla Cattolica, ha 5 figli naturali, più uno in affido, e vive, con un’altra famiglia di amici, in una struttura che fa accoglienza e accompagnamento all’integrazione di famiglie di stranieri.
Scola afferma che la famiglia è l’ambito primario dove si imparano misericordia e giustizia. Da sposa e mamma qual è la sua valutazione?
È bello che il Cardinale tenga insieme giustizia e misericordia. Nel senso comune sembrano ormai due strade tra cui dover scegliere, o l’una o l’altra. Invece quella che ci è chiesta è una giustizia misericordiosa, perché la carità supera, ma non nega la giustizia, anzi la presuppone. Ma va oltre. Lo dice bene il Cardinale in un passaggio del Discorso, quando parla delle «azioni di misericordia» come la compassione e il perdono, che proprio per la loro eccedenza sono capaci di suscitare relazioni nuove – e risuscitare quelle esistenti -, facendole sentire come più umane. Azioni capaci di «dare inizio a qualcosa di nuovo», che rinnova il mondo e lo disinquina da risentimenti, tristezze, rassegnazioni, rendendolo abitabile. Misericordia, magari senza chiamarla con questo nome, è qualcosa che si pratica quotidianamente in famiglia. Se si seguisse la logica dell’occhio per occhio, o del dare a ciascuno ciò che merita, la famiglia esploderebbe dopo un giorno. Invece, è grembo di relazioni, di accoglienza reciproca e palestra di misericordia, che qui si impara e non va dimenticata. Il Salmo 117 recita: «Apritemi le porte della giustizia: vi entrerò per ringraziare il Signore».
L’Arcivescovo sottolinea l’urgenza educativa in particolare sul perdono in famiglia. Come fare?
Senza perdono le relazioni non sono possibili, tanto meno quelle familiari, perché più si sta vicini più è facile ferirsi, o almeno scorticarsi un po’. Naturalmente il perdono non è una sanatoria smemorata, un far finta di niente, ma un passare attraverso il dolore provocato e subìto, guardandolo insieme, per rafforzare l’alleanza che si era infragilita. Non oblio, ma memoria che libera: dalla trappola della reazione, della vendetta, dal male che sembra inchiodare a una ripetizione senza via d’uscita. Il perdono libera tutti, anche chi lo concede. Simone Weil usa una bella immagine del perdono: un arcobaleno che getta un ponte dove si era formato un abisso. Ecco, il perdono non mette una pezza, ma getta un ponte di luce gioiosa. È una scuola di amore, tanto che Gesù rimprovera chi si lamenta dell’olio che la peccatrice ha «sprecato» per lui con la frase, da ricordarsi sempre a vicenda, «poco ama chi poco è stato perdonato». Perdonandoci, ci rimettiamo al mondo a vicenda: il dolore è travaglio di una nuova nascita. Poiché la famiglia non è un modello, ma un «concreto vivente», un caos solidale e imperfetto, il perdono non è un’eventualità evitabile, ma una delle condizioni strutturali della vita familiare. E dunque anche sociale.
Misericordia e giustizia si possono vivere anche con l’accoglienza in famiglia e la solidarietà e la condivisione tra nuclei familiari. Qual è la sua esperienza?
Anche nella vita sociale, rispetto alla questione immigrazione, sembra difficile coniugare la via della legge e quella dell’amore. Ma anche guardando alla ricca eredità civile di Milano, oltre che alle ormai tante esperienze in questa direzione, la via da sperimentare, suggerisce il Cardinale, è quella di una «tradizione innovativa». Che parte prima di tutto dalla famiglia. Certo, non si può gravare tutto sulle sue spalle, soprattutto se i nuclei sono individualizzati e lasciati a loro stessi. Ma le sfide del presente ci sollecitano a innovare, a sperimentare nuove forme di alleanza tra famiglie, nuove forme dell’abitare che possano ospitare, in modo condiviso e dunque sostenibile, situazioni fragili che però sono sempre – e lo dico per esperienza personale – fonte di vita ricca e piena per tutti. Aprendo le porte e guardando il mondo dalla periferia, con occhi amorevoli, ritroviamo noi stessi. È questo il nuovo umanesimo.