Il popolo ecumenico cerca nuovi cammini da intraprendere insieme per testimoniare la fede nella libertà dello Spirito. Le sue orecchie sono state aperte all'ascolto della Parola di Dio e la lingua sciolta per lodare il Signore. Don Gianfranco Bottoni, responsabile del Servizio Ecumenismo della diocesi, inaugurando la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani 2007, nella basilica di Sant'Ambrogio ha prospettato la "sinodalità ecumenica multilaterale". Di seguito pubblichiamo l'intervento.
di Gianfranco Bottoni
"E’ straordinario. Fa sentire i sordi e fa parlare i muti" (Mc 7,37). Lo dicevano di Gesù. E lo dicevano in terra pagana. L’evangelista infatti colloca la guarigione del sordomuto durante il viaggio di Gesù fuori dai confini di Israele. Potremmo dire che è il mondo di allora ad esprimere il proprio stupore di fronte all’efficacia della parola pronunciata da Gesù su un sordomuto: Effatà. Una parola che per l’evangelista era funzionale alla catechesi battesimale. Ogni battezzato infatti è metaforicamente un sordomuto guarito, perché le sue orecchie sono state aperte all’ascolto della parola di Dio e la sua lingua è stata sciolta a lodare il Signore e ad annunciare il suo regno. E se lo è ogni discepolo divenuto credente, a maggior ragione lo è l’intera comunità cristiana.
È dunque il senso stesso del testo dato dall’evangelista ad autorizzare una lettura metaforica della sordità. Nasce allora la domanda se anche oggi la gente del mondo, guardando a noi battezzati e alle nostre comunità ecclesiali, manifesterebbe lo stesso stupore che ai tempi di Gesù. Da questo interrogativo prende spunto la riflessione che vi propongo. Mi è stato chiesto di introdurre la Settimana con una riflessione su chiesa ed ecumenismo, in quanto al commento del testo evangelico provvederà lo studio biblico in programma lunedì prossimo. Ho pensato allora di rendere partecipi voi, sorelle e fratelli del "popolo ecumenico", di almeno due domande che mi accompagnano nel mio servizio per l’ecumenismo, così che non potrete dire che sono rimaste segrete nella "stanza dei bottoni"!. Vi preavviso però che questa riflessione non sarà né breve né leggera. Per questo mi affido alla misericordia di Dio e di tutti voi, se il mio ascolto è stato quello di un sordo che non intende e se la mia parola risulterà quella di un muto che non annuncia.
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La prima domanda riguarda la chiesa nel mondo di oggi. Perché gran parte della società in cui viviamo non ci percepisce come sordomuto guarito, come chiesa aperta dall’Effatà del Signore, chiesa dell’ascolto in dialogo col mondo? Perché? Qui non discuto se la gente ha torto o ha ragione. Interessa il fatto in sé, il fatto che oggi intorno alla chiesa non si manifesti lo stesso stupore che si manifestava ai tempi di Gesù. La chiesa – in particolare quella che in Italia vede monopolizzata su di sé l’attenzione pubblica – non è certo taciturna. Anzi! Con insistenza ribadisce certezze etiche e soluzioni a svariati problemi dei nostri tempi. Sono prese di posizioni che a molti appaiono come pressioni basate su una pretesa di assolutezza nei confronti della verità. Ora, in sede ecumenica, sarebbe opportuno cercare insieme di discernere, nelle nostre pretese di verità, tra ciò che deriva certamente dall’evangelo e ciò che discende da quel sistema etico-dottrinale che, storicamente elaborato all’interno della societas christiana, era in funzione del suo governo.
Infatti nell’odierno contesto pluralista e secolarizzato il bene comune della vita civile di una società democratica non necessariamente coincide con quello espresso dalla sapienza di una religione. Il bene comune della società non è verità predefinita e deve pertanto essere ricercato con il contributo di tutte le sue componenti sociali e culturali, oltre che religiose. Non dimentichiamo poi che nell’evangelo Gesù proclama come verità non un sistema dottrinale, ma la sua persona, ovvero la sua singolare testimonianza di vita nell’amore fino al dono totale di sé. Invece, lungo i secoli della storia, alla verità intesa come persona del Verbo fatto carne si è andata sostituendo e imponendo una concezione intellettualistica di verità.
Da questa concezione intellettualistica deriva, in particolare, quella contrapposizione astratta tra fede e ragione, tra una fides e una ratio indebitamente assunte come categorie rappresentative di due mondi antagonisti – religioso e laico / credenti e non credenti – e di due saperi tra loro concorrenziali in ordine alla verità. Ma la ragione che pensa e la fede che crede non sono due realtà separate e a sé stanti, come se con la fede non si pensasse e con la ragione non si credesse. È infatti di elementare evidenza che in ogni persona esiste un’unica coscienza intelligente. Me lo diceva una ragazza, riflettendo con semplicità su di sé. Come qualsiasi altra persona al mondo, anche lei aveva iniziato la sua esistenza dovendo credere tutto e dovendo in tutto fidarsi di altri: una necessità per poter imparare a parlare, a vivere, a conoscere… Man mano però che la sua ragione acquisiva autonomia di pensiero e senso critico, ciò che prima aveva dovuto credere per necessità poteva poi incominciare a verificarlo con la ragione e a crederlo o meno con libera consapevolezza. Ciò avviene per ogni sfera del sapere umano, anche per quella religiosa. L’intelligenza umana non può non essere originariamente credente, ma in un cammino di progressiva maturazione diviene sempre più razionale e può passare dalla necessità di credere alla libertà di credere. Ciò che muta tra le persone è in che cosa razionalmente si crede. Anche l’ateo con la sua ragione crede, in altro da Dio. Per il cristiano, l’atto di fede in Dio è tale solo se e nella misura in cui è libero e razionale, se cioè risulta realmente liberato dalla necessità di credere, cosa possibile grazie al pensare con la propria ragione.
Ecco: dalla necessità alla libertà di credere: questo è il passaggio decisivo che la maturità della persona implica. Ma questa fondamentale maturazione umana è ciò che l’insegnamento e l’immagine pubblica della chiesa sembrano maggiormente favorire nella società italiana e nella stessa comunità cristiana? Mi pare non manchi qualche difficoltà a constatarlo. Verrà il giorno in cui le chiese insieme, in atteggiamento di ascolto e di dialogo, offriranno umilmente alla società un contributo trasparente alla verità e alla libertà dell’evangelo? In quel giorno il mondo contemporaneo potrebbe esclamare, come ai tempi di Gesù: Ha fatto bene ogni cosa. Ha guarito persino quel sordomuto che è la nostalgia della cristianità perduta!
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Viene ora una domanda scomoda: e se sordomuto fosse anche il nostro stesso ecumenismo? Fin dai suoi inizi il movimento ecumenico si è dato come meta da perseguire l’unità visibile dei cristiani. Il mio secondo interrogativo riguarda proprio l’interpretazione di questa unità visibile. Siamo certi che la meta dell’unità visibile non rischi di diventare una sorta di mito? Siamo certi che non sia un’idea datata, figlia di una stagione che enfatizzava la chiesa a scapito del regno? Dal testo evangelico della preghiera ut unum sint non si deduce necessariamente che Gesù invocasse la visibilità di un’unione ecclesiastica tra i discepoli, bensì l’unità nell’annuncio. Non ci siamo forse lasciati un po’ ingannare dallo stesso abbaglio di prospettiva di coloro che tentarono di edificare Babele? Anch’essi nella città e nella torre cercavano un segno di unità visibile, ma "il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città" (Gn 11,8).
Oggi, non a torto, siamo preoccupati dei frequenti rigurgiti di confessionalismo, delle nuove divisioni tra le chiese su cruciali questioni etiche e antropologiche poste dal mondo attuale e, più ancora, della crescente proliferazione e diffusione di comunità e movimenti evangelicali e pentecostali che stanno sconvolgendo il tradizionale volto del cristianesimo nella storia. Queste nuove lacerazioni fanno problema. Ma non potrebbero essere la conseguenza della stessa e benedetta decisione che Dio prese nei confronti di Babele: "Scendiamo e confondiamo la loro lingua." (11,7)?
A quale unità visibile dei cristiani stiamo pensando? A quella di una futura ma utopica chiesa unita, una chiesa probabilmente irreale? Che forma dovrebbe avere questa chiesa unita? Nessuno lo sa, né noi diciamo di saperlo. Eppure è inevitabile che impresso nella mente di ciascuno di noi ci sia un certo modello di unità. E questo modello non sarà altro che l’inconscia proiezione dell’esperienza e della visione confessionale di chiesa che ciascuno sperimenta o predilige. Questo nostro modello di unità visibile diviene il progetto babelico, per il quale inconsciamente lavoriamo nel nostro ecumenismo. Diviene il paradigma con il quale valutiamo lo stato di salute del cammino ecumenico e la necessità di un’efficace politica di rilancio.
Teorizzare, ad esempio, un ecumenismo a più velocità potrebbe apparire una realistica scelta di politica ecumenica. Ma si deve obiettare che non si può pensare e realizzare tale progetto se non a partire dal modello di unità che si ha in mente e che è condizionato dalla propria esperienza confessionale di chiesa. La chiesa poi che promuovesse un ecumenismo a più velocità si porrebbe al centro dell’ecumene per giocare un ruolo decisivo di guida nel processo di unificazione. Facendosi protagonista di una contemporanea molteplicità di dialoghi bilaterali con le altre singole confessioni, questa chiesa potrebbe aspirare, in tempi appunto differenziati, a raggiungere accordi dottrinali e a concordare forme di unità con alcune chiese, però non con altre. Il protagonismo ecumenico di una sola chiesa è assai rischioso, perché di fatto imporrebbe come unico parametro di riferimento un’ecclesiologia confessionale e il suo implicito modello di unità. Probabilmente avrà poco successo e troverà porte chiuse. Ma nel frattempo si configurerebbe uno scenario non molto diverso da quello vagheggiato nel cattolicesimo preconciliare del cosiddetto "ecumenismo di ritorno". Questo ci deve preoccupare. Il Vaticano II aveva fatto abbandonare ai cattolici come inaccettabile l’idea di essere la chiesa con cui le altre avrebbero dovuto concordare il loro ritorno. Invece questa idea c’è il rischio che di fatto, sia pure in modo inconscio e sotto mutate sembianze, si possa ripresentare.
Proprio questo modo di pensare e fare ecumenismo sarebbe sordo al primato dello Spirito. Perché? Perché nel cammino sulle vie della riconciliazione e della comunione il segno forte e inequivocabile – che ad operare è lo Spirito – lo si ha quando a riunirsi sono chiese e cristiani di più tradizioni confessionali che si accordano a livello multilaterale. Lì si verifica quanto l’evangelo annuncia: "impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio" (Mc 10,27). L’abbiamo visto nelle grandi assemblee di Basilea e Graz: ci prepariamo per quella di Sibiu a settembre. In piccolo è ciò che abbiamo sperimentato a Milano con la nascita del consiglio delle chiese. Invece un’eccessiva enfasi sull’unità visibile delle chiese e sul nostro ecumenismo si chiude alla libera ed efficace azione dello Spirito.
Può sembrare paradossale, ma temo di più le eventuali sordità degli ecumenici zelanti che non quelle degli antiecumenici supponenti o irridenti. Anche se questi ultimi hanno il potere di ferire il corpo, il corpo di Cristo che è la chiesa, non l’hanno però di uccidere lo Spirito, autore dell’unità. Non temeteli. Sono persone spiritualmente e mentalmente misere, di cui, se mai, dobbiamo imparare a farci carico nella carità. Temiamo piuttosto noi stessi, tentati di fare con le nostre mani un ecumenismo ecclesiocentrico, tentati di restare sordi allo Spirito. Se infatti dallo Spirito ci lasciassimo condurre, non resteremmo separati nella missione, perché è in essa che dobbiamo essere visibilmente uniti. E già lo potremmo!. L’una et sancta è la chiesa in missione. Di qui l’idea che la chiesa di Dio che è in Milano, in ascolto di ciò che lo Spirito dice oggi alle chiese, proponga in un prossimo futuro un’iniziativa che contribuisca a far crescere l’inderogabile esigenza che si dia vita a una qualche espressione informale di sinodalità ecumenica multilaterale. Si tratta di far percepire alle chiese e ai loro leader l’importanza di camminare visibilmente insieme per poter rivolgere un comune e condiviso messaggio al mondo odierno. Un messaggio che, in nome dell’evangelo e per la sua testimonianza, possa riguardare la libertà religiosa oggi e favorire il cammino delle persone a passare dalla necessità alla libertà di credere.
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Mi scuso di avervi tediato a lungo. Concludo con un’invocazione:
Tu solo, Signore, puoi liberarci dalla sordità che ci rende incapaci di parlare nel tuo nome. Non vi riusciremo finché non saremo capaci di stupirci della tua opera. Aprici dunque il cuore a scoprire la santità e i doni spirituali che tu susciti in ogni chiesa. Aprici le orecchie ad ascoltare la testimonianza di ogni confessione cristiana. Scioglici la lingua a cantare lo stupore per l’agire in esse del tuo Spirito. A noi, diversamente che al mondo, tu chiedi, Signore, di guardare con occhi di fede gli uni le chiese degli altri. Allora fa’ in modo che incontrandoci – in questa settimana e sempre – sappiamo contemplare la bellezza di ogni tua chiesa e fa’ che contemplandola di te, Signore Gesù, impariamo ad esclamare:
"Ha fatto bene ogni cosa. Fa sentire i sordi e fa parlare i muti".