Prelevatodalla suacanonica,l’arciprete di Calolziocortefu rinchiusonel carceredi San Vittorea Milano,dove morìil 23 febbraio1944 per i maltrattamentisubitidai nazifascisti.Il ricordoa 70 anni dal suomartirio.

di Arturo BELLINI

Achille Bolis

«Don Achille Bolis è morto di aneurisma»: fu questa la versione ufficiale dell’ autorità nazifascista, quando la sera del 23 febbraio, poco dopo l’ingresso nella cella di San Vittore, don Achille fu trovato morto.

A distanza di anni, quella dolorosa vicenda è stata ricostruita. La raccontano Enrica Bolis e Clara Tacchi nella pubblicazione intitolata “A Milano è morto l’arciprete”. Con documenti di archivio e testimonianze di chi visse quel drammatico momento, le due ricercatrici con rigoroso criterio storico, danno visibilità e spessore a una storia rimasta a lungo, come tante altre, dimenticata, censurata, nascosta.

Ci vollero due decenni per sapere che don Achille Bolis, arciprete di Calolziocorte, prelevato dalla canonica, nella notte tra il 21 e il 22 febbraio 1943, morì nelle cella di san Vittore a Milano il 23 febbraio, a causa delle torture subite. Passarono altri trent’anni per una prima ricostruzione dei fatti e per una presentazione del suo ministero, svolto senza risparmio di energie a servizio della sua comunità, con la coscienza alta della propria missione di inviato a combattere la mondanità.

A don Achille Bolis toccò in sorte un tempo tempestoso e difficile. A lui come a tanti altri, in quegli anni non fu facile prendere decisioni. Le scelte arrivarono col passare dei giorni e il succedersi degli eventi, assecondando la sensibilità dell’anima cristiana che non teorizzava, ma sapeva venire incontro ai giovani  che cercavano un rifugio per sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti. «L’arciprete Bolis – scrive don Matteo Bartoli – si è trovato suo malgrado protagonista, cercando di essere vicino a chi aveva bisogno di aiuto, concretizzando così il suo ministero sacerdotale».

A distanza di anni, con la memoria più libera dalle strette ideologiche, lo scenario si fa più chiaro e si fa più evidente – come scrive don Ezio Bolis nella prefazione al libro –  «il ruolo importante che i preti giocarono, stretti tra l’esigenza di rimanere sopra le parti e la necessità di schierarsi a difesa dei più deboli».

Enrica Bolis e Clara Tacchi con il loro lavoro hanno messo in luce la figura e la personalità dell’arciprete, ma hanno anche aperto le vie per avviare nuove ricerche su eventi e persone che non devono essere dimenticati, ma ricostruiti e narrati. Non dobbiamo stancarci di cercare la verità, di ricostruire i fatti del passato e di serbarne memoria. Senza censure, senza remore ideologiche di nessun tipo. Perché solo la verità consente la memoria.

«Preti come don Bolis, don Seghezzi, don Barbareschi e tanti altri – scrive a conclusione della prefazione don Ezio Bolis – resistettero non per opporre violenza a violenza, odio contro odio, ma per affermare un diritto e una libertà per sé e per gli altri, anche per i figli di chi allora era oppressore. Per questo furono martiri ed eroi. La loro resistenza fu anzitutto morale… offrirono una testimonianza di carità, di ospitalità e di fratellanza: fu proprio questo coinvolgimento con la loro gente a renderli oggetto delle violenze tedesche e fasciste. Sono stati preti che hanno educato al senso autentico della libertà, hanno insegnato a guardare avanti, preparando il domani, pur nella fatica e nella tristezza di giornate pesanti. Di questi preti la chiesa deve essere fiera». 

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