Nel mese missionario, ecco due spunti per riflettere, anche davanti allo schermo, sul tema dell'integrazione
Redazione
13/10/2008
di Maria Grazia CAZZANIGA
La migrazione e la vita in un paese diverso dal proprio di origine, un tema sempre più trattato nella cinematografia di qualsiasi origine geografica. Per citare solo alcuni dei numerosi titoli tra i più famosi prodotti negli ultimi 10 anni e ambientati nella contemporaneità: East is east di Damien O’Donnel, commedia britannica della fine degli anni Novanta, Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana, Il destino nel nome di Mira Nair e Cous Cous di Abdel Kechiche.
Questi ultimi due titoli sono arrivati nelle sale italiane a distanza di pochi mesi (il primo nel giugno 2007 e il secondo nel gennaio dell’anno successivo dopo aver partecipato al Festival di Venezia dove ha ricevuto l’apprezzamento di critica e pubblico) e ci presentano due storie che potremmo dire agli antipodi per tipologia di integrazione.
Cous cous racconta la vita di Slimane, sessantenne arabo che vive da sempre vicino a Marsiglia ed è impiegato in un cantiere navale. Slimane si sente francese – tanto che, quando perde il lavoro a favore di immigrati più giovani e non naturalizzati afferma “a noi francesi non ci vogliono più” – ma deve lottare contro la diffidenza dei suoi stessi connazionali nel realizzare il sogno che ha tenuto nel cassetto per anni: aprire un ristorante di cous cous di pesce. Il film ha come protagonisti unici Slimane e la sua famiglia e il resto della comunità araba che li circonda, criticando il suo progetto ma anche stringendosi attorno a loro e aiutandoli nel momento del bisogno. I pochi francesi che intervengono nella storia sono i burocrati e i ristoratori concorrenti, consapevoli della forza di volontà del protagonista e preoccupati che la loro posizione di privilegio possa venire intaccata. Non c’è contatto e non c’è dialogo tra questi due mondi, fino al tragico epilogo della storia che non ci svela neppure se tutti gli sforzi del protagonista per uscire dalla sua posizione sociale caratterizzata da solitudine, esilio ed umiliazione, siano andati a buon fine. È la storia di un padre che lotta per garantire ai propri figli un futuro migliore e si sente rifiutato, è la storia di molti immigrati in Italia e in molti altri paesi europei.
Diversa per ambientazione sociale e per epilogo è la storia raccontata in Il destino nel nome. Nella società descritta nel film l’integrazione degli immigrati sembra compiuta, e lo spettatore si convince che non c’è prospettiva migliore per il protagonista, Gogol, figlio di immigrati indiani negli Stati Uniti, studente tanto integrato nella società americana da voler dimenticare le sue origini. Il rifiuto di Gogol per le sue radici parte dal rifiuto di quel nome bizzarro che i suoi genitori hanno scelto per lui e che per lui rappresenta la vera ragione delle sue difficoltà di farsi accettare come pari dai suoi coetanei. Gogol cambia il suo nome in Nick e da qui parte la sua strada per l’integrazione, che sembra ora senza ostacoli: un buon lavoro, una bella ragazza. Fino a quando il protagonista non si rende conto che questa è avvenuta calpestando le sue origini e quelle tradizioni che i suoi genitori avevano gelosamente conservato e avevano cercato di trasmettere ai figli. La morte del padre risveglia in Gogol la lotta fra le sue due anime: l’America e l’India, e il protagonista cerca se stesso in quest’ultima: partecipa ai riti sacri dell’induismo, cerca e trova una moglie bengalese come lui. Ma anche questo non basta. È la storia di un ragazzo che trova se stesso nell’accettare di non essere completamente solo americano o solo indiano, èla storia di tanti che sentono straniera una parte di se stessi.
Due storie di rapporti tra radici e vita quotidiana, di sospetto e dialogo (a volte fallito), di ascolto di altre culture e chiusura nella propria, sia essa cultura ospitata o ospitante. Due storie che parlano anche alla nostra cultura, che spesso vuole omologare invece di accogliere la diversità.