Il teologo don Aristide Fumagalli sulle violenze in famiglia: «Siamo chiamati a interrogarci non solo sulla stabilità dei legami familiari, ma anche sulla loro qualità»
Redazione
20/02/2008
«La presenza della comunità cristiana ancora capillare sul territorio può essere la modalità migliore per conoscere direttamente le situazioni di violenza, che altrimenti vengono alterate quando finiscono sotto i riflettori dei mass media». Lo sostiene don Aristide Fumagalli, teologo del Seminario di Venegono.
Il maggior numero di violenze avvengono in famiglia. Questo fenomeno come interroga la Chiesa ambrosiana?
Attualmente l’attenzione verte soprattutto sulla crisi delle famiglie che sfocia nel divorzio o prima nella separazione. Questo fenomeno interroga la diocesi, ma più ampiamente la Chiesa, a considerare non solo la stabilità dei legami familiari (il fatto che si mantengano), ma anche la qualità dei legami familiari (cosa avviene all’interno).
Anche la separazione spesso è il frutto di disagio che nasce da violenze…
Per certi versi si è invitati a risalire alla radice di ciò che poi si manifesta in questa forma. Mi sembra un’istanza che deriva direttamente dal Vangelo, il quale chiede di considerare quale sia lo stile amoroso che viene vissuto tra le persone. È vero che Gesù riporta al principio del matrimonio, che è indissolubile. D’altra parte insegna anche che i rapporti, in particolare tra marito e moglie, devono essere secondo lo stile d’amore che Gesù stesso ha inaugurato e reso possibile.
Quest’ampia diffusione di violenza in varie forme pone un problema anche educativo alla comunità cristiana…
È il compito antico e sempre nuovo: di inscrivere nelle relazioni, in particolare quelle uomo-donna, uno stile che non vada nella logica del dominio dell’uno sull’altro, ma della reciprocità amorosa, del darsi reciprocamente la vita. È il cuore stesso del messaggio cristiano e mi sembra che intercetti bene l’attuale situazione, perché propone una soluzione o comunque indica una via per superare ciò che diventa male come la violenza.
Una difficoltà educativa anche di fronte a messaggi mediatici con la figura della donna velina, oggetto di piacere…
Senza dubbio. Se è vero che a livello pubblico si veicolano messaggi che inneggiano a questo stile, poi spesso nelle vicende personali ci si rende conto che questi modelli producono danni. Da una parte c’è la necessità di venire in soccorso di chi non ha la possibilità di sciogliersi da questa situazione, dall’altra sperimentare la negatività di alcuni modelli può diventare una risorsa. Si cresce anche laddove la sofferenza viene vissuta.
Si potrebbe criticare l’indissolubilità del matrimonio che diventa una sorta di prigione per la donna. Come rispondere?
Un criterio evangelico può essere illuminante. Quando a Gesù fu chiesto quali fossero i legami familiari, rispose che non erano di per sé quelli della carne e del sangue, ma quelli di coloro che si disponevano a vivere secondo lo stile di Dio, della gratuità dell’amore, del dare la vita per l’altro. In questo senso la difesa della famiglia non è di un istituto, una scatola vuota entro il quale può succedere di tutto, ma la difesa di uno stile della relazione che è quello che il Vangelo racconta e chiede di vivere.
Ma la violenza avviene spesso anche in situazioni di convivenza…
Laddove c’è una instabilità scelta, come nel caso di una convivenza che non si volesse impegnare in un’ulteriore stabilità, per certi versi la logica può anche essere quella di non farsi mai carico anche del male che si procura all’altro. La responsabilità può mascherarsi dietro al fatto che non c’è un legame sancito.
Nel Percorso pastorale il cardinale Tettamanzi sollecita a una vicinanza delle comunità a quelle che chiama «famiglie fragili»…
La prossimità umana è la forma con cui si sperimenta un aiuto che i cristiani ritengono non sia solo umano, ma anche una vicinanza di Dio stesso. La comunità cristiana può farsi prossimo per consolare, per operare tutte quelle azioni che simbolicamente la parabola del buon samaritano presenta: è tenuta a fare quelle forme di assistenza e di vicinanza che possono sollevare a partire anche dalla possibilità, per chi soccombe a queste situazioni, di essere liberato da una situazione grave. Ma la comunità cristiana da chi è composta? Spesso lo è da persone che vivono le medesime fragilità. Quindi non credo si possa tagliare le famiglie in due settori ben definiti: da una parte le “sane” e dall’altra quelle malate e fragili. Talvolta questo confine viene scavalcato. (P.N.)