Cinquant’anni fa, con la legge n. 69, veniva istituito l’Ordine dei giornalisti.
Parla il presidente nazionale Enzo Iacopino
di Vincenzo CORRADO
Focus sull’informazione in Italia: dalla riforma dell’Ordine dei giornalisti alle difficoltà economiche della stampa cattolica, dalle cause per diffamazione alle questioni riguardanti l’etica e la professionalità, dal diritto di cronaca ai condizionamenti politici o partitici, dalla comunicazione sui “valori non negoziabili” alle nuove tecnologie… A 50 anni dalla legge n. 69, con cui nel febbraio 1963 veniva istituito l’attuale Ordine dei giornalisti, il presidente nazionale Enzo Iacopino parla dei problemi sul tappeto e delle prospettive future.
Presidente, può tratteggiare, in maniera sintetica, i momenti più significativi di questi 50 anni?
«Ne cito solo uno, permanente e con senso vero del limite. I giornalisti hanno aiutato il Paese a crescere, diffondendo conoscenza, accrescendo la sensibilità, consentendo ai cittadini di avere informazioni necessarie per scelte consapevoli. Avremmo potuto fare di più? Sì. Avremmo potuto fare meglio? Sì, senza esitazione. Ma il bilancio non è negativo. Credo che abbiamo onorato l’articolo 21 della Costituzione che garantisce ai cittadini il diritto a un’informazione libera».
La storia dell’Ordine s’intreccia, tra l’altro, con la storia della stampa cattolica. Pensiamo, ad esempio, ai circa 190 giornali diocesani sparsi sul territorio: alcune testate sono ultracentenarie. Quale può essere il loro contributo per l’informazione? Che futuro vede per questa stampa, oggi in difficoltà, tra l’altro, per i tagli al Fondo editoria?
«I giornali cattolici hanno una diversa attenzione per problematiche che troppo spesso vengono trascurate dai grandi media nazionali. Gli aspetti sociali, ad esempio, che trovano spazio solo quando si verificano emergenze, quando fanno clamore. Ma la vita di ogni giorno non è quella descritta da accattivanti pubblicità televisive o raccontate, anche in campagna elettorale purtroppo, da chi cerca consensi facili. Molte voci, molti problemi non avrebbero visibilità senza la stampa cattolica. Lo Stato, sia pure nella difficoltà economica, dovrebbe rendersi conto che l’informazione è un diritto dei cittadini, non dei giornalisti. E che questo diritto è fondamentale. L’informazione è alimento per la crescita democratica del Paese. Non si può misurare tutto allo stesso modo».
Quali sono, oggi, i principali problemi che interessano i giornalisti italiani e l’informazione? Su cosa puntare per risolvere tali problematiche?
«Senza stabilire priorità, vedo tre problemi: la necessità di una riforma radicale dell’Ordine perché oggi è costretto a convivere con una legge istitutiva che ha 50 anni; una nuova legge sulla diffamazione per sottrarre i giornalisti – che se sbagliano devono pagare anche e non solo con le sanzioni deontologiche – al ricatto permanente delle cause per diffamazione e delle vertenze civili; e la possibilità reale per chi vive di giornalismo di farlo con compensi dignitosi. Le cause per diffamazione, anche solo minacciate, sono una pistola alla nuca di migliaia di giornalisti che non hanno molto spesso coperture legali da parte delle aziende e devono economicamente rispondere in proprio per eventuali danni. Come è possibile pensare che si possa essere liberi, garantendo così i diritti dei cittadini a un’informazione corretta, se si è minacciati? Come si può essere liberi quando si viene retribuiti pochi euro ad articolo? Quale qualità si può assicurare in queste condizioni?».
Etica, professionalità e cambiamento: quali prospettive per il futuro?
«Siamo costretti a parlare di etica, perché abbiamo nei nostri armadi troppi comportamenti non adeguati; di professionalità, perché registriamo troppe improvvisazioni. Per questo invochiamo il cambiamento che può essere aiutato da una nuova legge sull’Ordine, coniugata con norme che finalmente esistono e che impongono l’obbligo di formazione-aggiornamenti continui per i giornalisti. Personalmente, poi, confido negli innesti di giovani generazioni di giornalisti. Mi piace essere ottimista».
Come giudica lo stato di salute dell’informazione in Italia?
«Non viviamo una grande stagione. E, forse sorprenderà, in parte ce lo meritiamo. Non è solo una situazione negativa legata alla crisi economica, con il conseguente calo delle risorse anche pubblicitarie. Molte volte c’illudiamo che, appagando gli istinti peggiori, incoraggiando il ‘guardonismo’ (penso alle tragedie come quella di Avetrana trasformate in spettacolo), salviamo il salvabile. Non è così. L’informazione non può essere solo auditel. Deve svolgere una funzione sociale che troppo spesso non viene onorata al meglio. M’illudo, spero che i cittadini siano in grado di apprezzare gli sforzi che stiamo cercando di fare in questa direzione».
Oggi viene spesso chiesta un’abolizione dell’Ordine: cosa risponde?
«Con le parole pronunciate da un grande del giornalismo, Enrico Mattei, mentre si discuteva sulla nascita dell’Ordine: la sua esistenza impone maggiori doveri a chi fa informazione e la sua mancanza lascerebbe mano libera a troppi avventurieri che si accreditano come editori per usare chiunque, senza garanzia alcuna, per fare i loro affari. Accade già con la presenza dell’Ordine. Senza di esso sarebbe una giungla inquietante».
In questi anni, molto spesso, sono state invocate l’etica e la deontologia dei giornalisti, in modo particolare, dinanzi a fatti di cronaca. Cosa ne pensa? Ritiene che qualche volta si è andati un po’ oltre il limite nel raccontare quanto accaduto?
«Penso che in molte occasioni abbiamo prodotto quanto di peggio fosse possibile. Ho citato Avetrana, ma la lista dolorosa degli episodi di cui vergognarci è lunghissimo. La vita (e la morte) non possono essere trasformate in spettacolo. È disgustoso quanto è accaduto, in troppe occasioni».
Quanto le categorie “politiche” e “partitiche” influiscono nell’informazione italiana? È possibile parlare a un giovane che vorrebbe accostarsi a questo mestiere di un’informazione libera da qualsiasi preconcetto?
«Non credo, purtroppo, alle favole da molti anni. I condizionamenti politici o partitici sono molto diffusi e non solo in quelli che sono organi ufficiali di formazioni politiche (dove è naturale ci sia un giornalismo ‘schierato’, rispettoso sempre della verità). Ma questo non autorizza a fare di tutto un mucchio. La stragrande maggioranza dei giornalisti riesce a non farsi condizionare dalle legittime convinzioni politiche personali e onora il patto di verità con i cittadini».
Come mai l’informazione televisiva, in questi anni, è fatta sempre meno di domande e sempre più di dichiarazioni?
«O di spettacolarizzazioni di tutto, anche del dolore, della vita e della morte. L’auditel prevale su tutto. È insopportabile».
Quanto spazio c’è, oggi, nell’informazione per raccontare, non in maniera negativa, i “valori non negoziabili” come la vita, la famiglia e la libertà di educazione?
«E quello che dicevo all’inizio. Lo spazio è poco. I ‘valori non negoziabili” pare non facciano notizie. Non capisco in base a che cosa, chi lo decida. Una domanda la faccio io: non è che il crollo delle vendite oltre che dalla evidente crisi economica è in qualche modo legato a quello che proponiamo ai cittadini?».
L’informazione è sempre più fatta di notizie che riguardano questioni antropologiche, bio-politiche, temi eticamente sensibili. Ritiene che ci sia un’adeguata preparazione da questo punto di vista? L’Ordine sta pensando a qualche proposta specifica di formazione?
«Dovremo fare un grande lavoro, perché questa preparazione è carente. La legge, per fortuna dicevo, c’impone l’obbligo di fare formazione. Io aggiungo il termine aggiornamento per evitare di urtare la sensibilità dei colleghi che, da molti anni, fanno questo mestiere e che si sentono “formati”. Da parte mia, ho l’orgoglio di dire che ogni giorno mi capita d’imparare qualcosa di nuovo. Spesso dai colleghi più giovani».
Come le nuove tecnologie stanno cambiando questa professione?
«Ho l’età che mi consente di dire che la professione è in continuo cambiamento. Quando l’offset sostituì il piombo, ci fu una vera rivoluzione. La qualità dell’informazione aumentò (le nuove tecnologie consentivano aggiornamenti continui). Parallelamente aumentò la quantità del lavoro dei giornalisti. Ora, e da qualche anno, ci sono le nuove sfide. Avranno effetti positivi se ci saranno regole capaci di garantire i diritti di tutti, per primo il rispetto per la verità e per le persone».
In conclusione, l’era digitale, per il giornalismo, rappresenta un’opportunità o un rischio?
«La vivo come una grande opportunità. Negare che ci siano rischi è, però, un grave errore. Forse dobbiamo misurarci con umiltà con queste nuove frontiere e imparare, crescendo insieme».