Una preparazione accurata, esperienziale e non di sole parole, è comunque una buona semina di memorie che rimangono nel futuro. Perché le memorie non vanno smarrite, riemergono quando meno uno se l'aspetta
di Vittorio CHIARI
Redazione Diocesi
È tempo di Prima Comunione e di Cresime nelle nostre parrocchie. Le chiese si riempiono di parenti e di fotografi, che si aggiungono a quello ufficiale scelto dal parroco, che vuole creare attorno ai comunicandi e ai cresimandi un clima religioso, di attenzione al rito sacro che si sta compiendo. È un bell’affare perché da quando sono entrate sul mercato le macchine fotografiche digitali, tutti sono diventati fotografi con una grande voglia di immortalare il proprio figlio o nipote in ogni fase del rito, evadendo all’ordine del parroco e dei vari catechisti.
La foto rimarrà memoria, se stampata, ma la preoccupazione prima dei formatori è che rimanga la memoria del Sacramento: l’incontro con il Cristo nell’Eucaristia e con lo Spirito Santo nella Cresima. A tal proposito, un vescovo bolognese, cresciuto alla scuola del Cardinal Lercaro e fine umorista, chiamava quest’ultimo “sacramento dei defunti”, perché segnava la fuga dalla Chiesa della maggior parte dei ragazzi e delle ragazze. Il Cardinal Martini nella sua Lettera sull’Educare ancora? invece incoraggiava parroci e catechisti, invitandoli a non soffermarsi sulla “fuga” ma a domandarsi sul perché c’era chi rimaneva.
Una preparazione accurata, esperienziale e non di sole parole, è comunque una buona semina di memorie che rimangono nel futuro. Tra le mani, in questi giorni, ho ripreso un libretto che non ha conosciuto alcuna gloria letteraria, non ha ricevuto nessun premio e penso sia stato edito in meno di 1000 copie, eppure prezioso per chi ama pensare l’educazione coma una semina di memorie. L’ho riletto in occasione del raduno degli alpini a Bergamo e dei bersaglieri a Milano. Non è Eugenio Corti che scrive – il suo libro “Cavallo Rosso” respira religiosità in ogni suo racconto – ma un comasco che ha voluto raccogliere, su invito del suo parroco don Roberto, le “Lettere al parroco di Montemezzo dalle trincee della Grande Guerra”.
Non è facile trovare questa parrocchia, che ha una chiesa bellissima con vista sul lago di Como, ma quel parroco del 1915-18, don Silvestri di Livigno, aveva seminato forti memorie religiose nei suoi parrocchiani che, scrivendo dal fronte, rivelano la loro fede e la loro speranza con espressioni commoventi. Da una lettera di Antonio Badel, datata 5 dicembre1917, leggiamo: «Ancora una volta vado esclamando le ultime parole del Te Deum cioè in Voi o Signore io porto tutta la mia fiducia se a Voi piace di farmi veder ancora una volta la mia famiglia e lodar e cantar insieme con essa le vostre Misericordie nel Vostro Tempio e se questo non mi aspetta per almeno non farmi restar poi confuso in eterno».
E Giuseppe De Carli, il 25 aprile 1916 scrive contento perché «hanno fabbricato anche una chiesetta in legno nella quale il Cappellano del Regimento ci dice la messa tutte le mattine e il rosario tutte le sere; ai militari che desiderano di fare la S. Pasqua ci hanno dato la libertà di farlo… Questa benedetta chiesetta è stata fabbricata dai soldati del Genio, l’hanno fatta senza finestre, ma ora le cannonate nemiche ce ne han fatte parecchie delle finestre».
E Pierino Badel: «Gli racconto che c’è qui il male nei soldati che è un brutto male, è la meningite spinale, entro 48 ore sono belli morti…Dunque io gli dico di ricordarsi anche di me e di raccomandarmi nella Santa Messa». E G.T: «Alla festa quando non sono di servizio vado alla Messa ma però intendo poco perché ci sono due paroci: uno sta alla balaustra a predicare tutto il tempo della Messa e quindi non si può sentire né la Messa né la predica, ma credo che varrà lo stesso».
Sono lettere semplici, sgrammaticate, ma dicono come Dio, seminato al tempo giusto, si è fatto presente a distanza di anni nei giorni della guerra. Se poi rileggiamo Cristo tra gli alpini o i libri di Bedeschi e di Rigoni Stern, troviamo testimonianze che ci incoraggiano a non temere: le memorie non vanno smarrite, riemergono quando meno uno se l’aspetta. Non sono solo opera dell’uomo, che deve fare la sua parte, ma di Dio, che la Sua la garantisce da sempre. È tempo di Prima Comunione e di Cresime nelle nostre parrocchie. Le chiese si riempiono di parenti e di fotografi, che si aggiungono a quello ufficiale scelto dal parroco, che vuole creare attorno ai comunicandi e ai cresimandi un clima religioso, di attenzione al rito sacro che si sta compiendo. È un bell’affare perché da quando sono entrate sul mercato le macchine fotografiche digitali, tutti sono diventati fotografi con una grande voglia di immortalare il proprio figlio o nipote in ogni fase del rito, evadendo all’ordine del parroco e dei vari catechisti.La foto rimarrà memoria, se stampata, ma la preoccupazione prima dei formatori è che rimanga la memoria del Sacramento: l’incontro con il Cristo nell’Eucaristia e con lo Spirito Santo nella Cresima. A tal proposito, un vescovo bolognese, cresciuto alla scuola del Cardinal Lercaro e fine umorista, chiamava quest’ultimo “sacramento dei defunti”, perché segnava la fuga dalla Chiesa della maggior parte dei ragazzi e delle ragazze. Il Cardinal Martini nella sua Lettera sull’Educare ancora? invece incoraggiava parroci e catechisti, invitandoli a non soffermarsi sulla “fuga” ma a domandarsi sul perché c’era chi rimaneva.Una preparazione accurata, esperienziale e non di sole parole, è comunque una buona semina di memorie che rimangono nel futuro. Tra le mani, in questi giorni, ho ripreso un libretto che non ha conosciuto alcuna gloria letteraria, non ha ricevuto nessun premio e penso sia stato edito in meno di 1000 copie, eppure prezioso per chi ama pensare l’educazione coma una semina di memorie. L’ho riletto in occasione del raduno degli alpini a Bergamo e dei bersaglieri a Milano. Non è Eugenio Corti che scrive – il suo libro “Cavallo Rosso” respira religiosità in ogni suo racconto – ma un comasco che ha voluto raccogliere, su invito del suo parroco don Roberto, le “Lettere al parroco di Montemezzo dalle trincee della Grande Guerra”.Non è facile trovare questa parrocchia, che ha una chiesa bellissima con vista sul lago di Como, ma quel parroco del 1915-18, don Silvestri di Livigno, aveva seminato forti memorie religiose nei suoi parrocchiani che, scrivendo dal fronte, rivelano la loro fede e la loro speranza con espressioni commoventi. Da una lettera di Antonio Badel, datata 5 dicembre1917, leggiamo: «Ancora una volta vado esclamando le ultime parole del Te Deum cioè in Voi o Signore io porto tutta la mia fiducia se a Voi piace di farmi veder ancora una volta la mia famiglia e lodar e cantar insieme con essa le vostre Misericordie nel Vostro Tempio e se questo non mi aspetta per almeno non farmi restar poi confuso in eterno».E Giuseppe De Carli, il 25 aprile 1916 scrive contento perché «hanno fabbricato anche una chiesetta in legno nella quale il Cappellano del Regimento ci dice la messa tutte le mattine e il rosario tutte le sere; ai militari che desiderano di fare la S. Pasqua ci hanno dato la libertà di farlo… Questa benedetta chiesetta è stata fabbricata dai soldati del Genio, l’hanno fatta senza finestre, ma ora le cannonate nemiche ce ne han fatte parecchie delle finestre».E Pierino Badel: «Gli racconto che c’è qui il male nei soldati che è un brutto male, è la meningite spinale, entro 48 ore sono belli morti…Dunque io gli dico di ricordarsi anche di me e di raccomandarmi nella Santa Messa». E G.T: «Alla festa quando non sono di servizio vado alla Messa ma però intendo poco perché ci sono due paroci: uno sta alla balaustra a predicare tutto il tempo della Messa e quindi non si può sentire né la Messa né la predica, ma credo che varrà lo stesso».Sono lettere semplici, sgrammaticate, ma dicono come Dio, seminato al tempo giusto, si è fatto presente a distanza di anni nei giorni della guerra. Se poi rileggiamo Cristo tra gli alpini o i libri di Bedeschi e di Rigoni Stern, troviamo testimonianze che ci incoraggiano a non temere: le memorie non vanno smarrite, riemergono quando meno uno se l’aspetta. Non sono solo opera dell’uomo, che deve fare la sua parte, ma di Dio, che la Sua la garantisce da sempre.