Andare in terra di missione aiuta i giovani a maturare, a capire quali sono le cose importanti della vita, li rende meno superficiali, li fa riflettere su Dio e sul Vangelo, fa scoprire il sogno che Dio ha su di loro

di Vittorio CHIARI
Redazione Diocesi

Ci sono meno giovani ai campi estivi negli Oratori: sono perlopiù dei giovanissimi, che accolgono l’invito del Don ad animare il grest in oratorio.
Dai 18 anni in su, è più facile incontrarli all’estero: in Europa, nei paesi dell’Est; in Africa, nell’America Latina, qualcuno arriva fino a Calcutta dalle suore di Madre Teresa.
Domenica scorsa, presso la Cooperativa La Goccia, l’ennesimo saluto ad una spedizione in Kenia e in Etiopia. Molte le magliette con la scritta “L’Africa ti chiama”: 19 giovani, pronti a rispondere all’appello, ragazzi e ragazze con una grande voglia di partire e di essere dono ai bimbi della discarica di Nairobi o ai poveri dell’Etiopia, una terra dove “tutti siamo nati”, dice il salmista, e dove stanno arrivando gli amici del Sidamo, quelli del Gaom, tutti animati da una fede che ha il “timbro” della carità.

Interessanti questi giovani, studenti e operai, neolaureati, che fanno parte di un volontariato di qualità, che segna la loro vita.
Non tutti si fermano alla prima esperienza di qualche mese, ci sono giovani che non accettano il mondo consumista, dove si può comprare la felicità a poco prezzo o la puoi ritrovare in tanti paradisi artificiali e scelgono la beatitudine della povertà, della essenzialità della vita, rischiando sul Vangelo e rifiutando di scrivere sulla loro agenda la data del ritorno.
Tra gli amici dell’Operazione Mato Grosso, che lavorano in America Latina, numerose sono le vocazioni sacerdotali: il tempo è diventato la loro vita, sacerdoti per sempre e per sempre al servizio dei poveri.

L’icona che accompagna questi giovani è quella del samaritano: un’icona universale, che di per sé non richiede neppure l’appartenenza religiosa alla Chiesa. Il samaritano era uno scomunicato, uno al di fuori, da evitare.
Samaritano era certamente Claudio: orfano di padre e di madre. Dopo un campo lavoro, al quale era andato per curiosità, rinuncia al possesso della sua officina, la cede al fratello e parte, lui “ateo” per andare tra i poveri: “Bisogna essere tanto forti da dedicarsi interamente agli altri, rinunciando a se stessi. Lo so se ti doni è poi come una droga: non ne puoi più fare a meno� Ho capito: non si può cancellare la sofferenza di questa terra, si può solo prenderne un poco degli altri per noi!”.

Claudio non è stato di quegli intellettuali che di fronte al dolore avevano concluso che Dio non esisteva.
Non ha chiesto a Dio il perché del dolore. ma lo ha preso su di sé, donando la sua vita, morendo a 26 anni per i poveri.
Tra i suoi scritti, una preghiera che concludeva così: “Anche se non sarò mai degno di alzare gli occhi verso di te, guardami tu questa volta dall’alto, aiutami a morire, è tanto difficile vivere”.
Sulla sua tomba a distanza di anni, gli indiòs xawantes ancora oggi portano fiori. La sua tomba è nella Chiesa: Claudio è un santo samaritano!

La ricchezza può rubare l’anima, ostacolare l’amore. Questi giovani che si inoltrano nei paesi della povertà e della miseria, della malattia, sembrano difendere la propria anima dall’idolatria delle cose, del denaro.
Non sono degli sciocchi: vogliono dare significato alla loro vita, divenendo icone di una felicità, che si respira sui loro volti, quella della vita donata per amore.
Invece là dove l’anima è stata rubata, corrosa, cancellata, comprendi che la ricchezza e il rifiuto degli altri sono una vera maledizione, una gabbia che imprigiona e non libera l’amore, che in tutti esiste e deve essere dissotterrato con coraggio.

Lavorare per i poveri, andare in terra di missione, aiuta i giovani a maturare, a capire quali sono le cose importanti della vita, quelle per le quali vale la pena vivere o morire, li rende meno superficiali, li fa riflettere su Dio e sul Vangelo, fa scoprire il sogno che Dio stesso ha su di loro.
Un simile volontario non nasce per caso: è frutto di tanti incontri in famiglia, all’oratorio, a scuola, in un clima di sobrietà, che fa apprezzare la bellezza dei legami con le persone, una delle ragioni per le quai i giovani vanno in cerca di esperienze forti.

Ricordava il cardinal Ratzinger che le vie che conducono a Dio sono tante, quanti sono gli uomini,. La più sicura è quella della carità, che li porta ad incontrare Cristo.
Nel suo Corpo in croce ritrovi i deboli, gli anziani, i malati, i piccoli, i poveri, i dannati della terra, i senza speranza, tutta l’umanità.

Se la Chiesa è una casa dai cento portoni, come scriveva Chesterton, non ci sono due persone che entrano esattamente dalla stessa porta, ma se entrano vuol dire che anche solo per poco hanno scelto quell’amore, che Dio non dimenticherà mai. Ci sono meno giovani ai campi estivi negli Oratori: sono perlopiù dei giovanissimi, che accolgono l’invito del Don ad animare il grest in oratorio.Dai 18 anni in su, è più facile incontrarli all’estero: in Europa, nei paesi dell’Est; in Africa, nell’America Latina, qualcuno arriva fino a Calcutta dalle suore di Madre Teresa.Domenica scorsa, presso la Cooperativa La Goccia, l’ennesimo saluto ad una spedizione in Kenia e in Etiopia. Molte le magliette con la scritta “L’Africa ti chiama”: 19 giovani, pronti a rispondere all’appello, ragazzi e ragazze con una grande voglia di partire e di essere dono ai bimbi della discarica di Nairobi o ai poveri dell’Etiopia, una terra dove “tutti siamo nati”, dice il salmista, e dove stanno arrivando gli amici del Sidamo, quelli del Gaom, tutti animati da una fede che ha il “timbro” della carità.Interessanti questi giovani, studenti e operai, neolaureati, che fanno parte di un volontariato di qualità, che segna la loro vita. Non tutti si fermano alla prima esperienza di qualche mese, ci sono giovani che non accettano il mondo consumista, dove si può comprare la felicità a poco prezzo o la puoi ritrovare in tanti paradisi artificiali e scelgono la beatitudine della povertà, della essenzialità della vita, rischiando sul Vangelo e rifiutando di scrivere sulla loro agenda la data del ritorno. Tra gli amici dell’Operazione Mato Grosso, che lavorano in America Latina, numerose sono le vocazioni sacerdotali: il tempo è diventato la loro vita, sacerdoti per sempre e per sempre al servizio dei poveri.L’icona che accompagna questi giovani è quella del samaritano: un’icona universale, che di per sé non richiede neppure l’appartenenza religiosa alla Chiesa. Il samaritano era uno scomunicato, uno al di fuori, da evitare. Samaritano era certamente Claudio: orfano di padre e di madre. Dopo un campo lavoro, al quale era andato per curiosità, rinuncia al possesso della sua officina, la cede al fratello e parte, lui “ateo” per andare tra i poveri: “Bisogna essere tanto forti da dedicarsi interamente agli altri, rinunciando a se stessi. Lo so se ti doni è poi come una droga: non ne puoi più fare a meno� Ho capito: non si può cancellare la sofferenza di questa terra, si può solo prenderne un poco degli altri per noi!”.Claudio non è stato di quegli intellettuali che di fronte al dolore avevano concluso che Dio non esisteva. Non ha chiesto a Dio il perché del dolore. ma lo ha preso su di sé, donando la sua vita, morendo a 26 anni per i poveri. Tra i suoi scritti, una preghiera che concludeva così: “Anche se non sarò mai degno di alzare gli occhi verso di te, guardami tu questa volta dall’alto, aiutami a morire, è tanto difficile vivere”. Sulla sua tomba a distanza di anni, gli indiòs xawantes ancora oggi portano fiori. La sua tomba è nella Chiesa: Claudio è un santo samaritano!La ricchezza può rubare l’anima, ostacolare l’amore. Questi giovani che si inoltrano nei paesi della povertà e della miseria, della malattia, sembrano difendere la propria anima dall’idolatria delle cose, del denaro. Non sono degli sciocchi: vogliono dare significato alla loro vita, divenendo icone di una felicità, che si respira sui loro volti, quella della vita donata per amore. Invece là dove l’anima è stata rubata, corrosa, cancellata, comprendi che la ricchezza e il rifiuto degli altri sono una vera maledizione, una gabbia che imprigiona e non libera l’amore, che in tutti esiste e deve essere dissotterrato con coraggio.Lavorare per i poveri, andare in terra di missione, aiuta i giovani a maturare, a capire quali sono le cose importanti della vita, quelle per le quali vale la pena vivere o morire, li rende meno superficiali, li fa riflettere su Dio e sul Vangelo, fa scoprire il sogno che Dio stesso ha su di loro. Un simile volontario non nasce per caso: è frutto di tanti incontri in famiglia, all’oratorio, a scuola, in un clima di sobrietà, che fa apprezzare la bellezza dei legami con le persone, una delle ragioni per le quai i giovani vanno in cerca di esperienze forti.Ricordava il cardinal Ratzinger che le vie che conducono a Dio sono tante, quanti sono gli uomini,. La più sicura è quella della carità, che li porta ad incontrare Cristo. Nel suo Corpo in croce ritrovi i deboli, gli anziani, i malati, i piccoli, i poveri, i dannati della terra, i senza speranza, tutta l’umanità.Se la Chiesa è una casa dai cento portoni, come scriveva Chesterton, non ci sono due persone che entrano esattamente dalla stessa porta, ma se entrano vuol dire che anche solo per poco hanno scelto quell’amore, che Dio non dimenticherà mai.

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