Un “parallelo” tra la copertura mediatica dell’esecuzione di Gheddafi e quella dell’incidente mortale di Simoncelli
di Marco DERIU
Tra i due eventi, come pure tra i due personaggi che ne sono stati protagonisti loro malgrado, c’è un abisso. Eppure il trattamento mediatico riservato all’esecuzione di Muammar Gheddafi e alla morte in diretta di Marco Simoncelli ha tratti comuni che suscitano molte riflessioni, oltre a sentimenti di orrore e di pietà. Nel volgere di pochi giorni i nostri occhi hanno visto e rivisto le immagini della cattura mortale del dittatore libico e della tragica caduta del pilota italiano. In entrambi i casi, immagini di morte in diretta, ma con connotazioni di segno diverso.
Da una parte, l’esito inevitabile di una caccia all’uomo che in Libia negli ultimi giorni si era fatta sempre più serrata, con la duplice azione risolutiva dell’esercito dei ribelli e delle forze alleate di appoggio. Dall’altra, un incidente prevedibile nel calcolo delle probabilità relativo a uno sport in cui la sfida al limite è condizione necessaria per primeggiare, ma imprevisto nel suo esito letale.
Da una parte, un “cattivo”, malvagio e antipatico, innaturale e grottesco nel culto della propria immagine come lo sono i dittatori e tutti coloro che abusano del potere che è stato loro conferito o di cui si sono appropriati con la forza. Dall’altra, un “buono”, un giovane simpatico e guascone, spesso irriverente, ma sempre amico di tutti, aggressivo soltanto quando si trattava di provare a coronare con un successo la sua passione per le corse in moto.
Da una parte, il concitato trambusto di una folla vociante dagli occhi invasati che si accalca attorno alla maschera di sangue di un uomo in balia della feroce volontà di vendetta. Dall’altra, una folla ammutolita e attonita, chiusa nel silenzio di chi ha capito subito quello che è successo, ma rimanda di secondo in secondo il momento in cui prenderne atto ufficialmente.
Da una parte, una morte prima annunciata dalle parole e poi testimoniata dalle immagini. Dall’altra, una morte mostrata dalle immagini e poi ufficializzata dalle parole.
Da una parte e dall’altra, la ripetuta messa in onda dei filmati che documentano gli ultimi istanti di vita dell’uno e dell’altro protagonista, nella modalità che in gergo si chiama loop, ovvero la incessante ripetizione di un filmato o di una sequenza di immagini fino a saturare non soltanto la capacità visiva, ma anche lo spazio per le emozioni nel cuore di chi vi assiste.
Da una parte e dall’altra, l’analisi minuziosa degli ultimi momenti di vita della vittima, in cerca di chissà quali spiragli di umanità o rassicurazione, di spiegazioni dettagliate quanto inutili, di riappacificazione con quel senso di ineluttabilità e di profondo spiazzamento che sale naturale di fronte a una vita che si spegne sotto i nostri occhi.
Da una parte e dall’altra, il nostro sguardo incollato al video, al fermo-immagine, al dettaglio dell’inquadratura che continuiamo a fissare forse per esorcizzare una morte che al fondo, nonostante la diversità abissale di situazioni, cause, motivazioni e modalità, resta un interrogativo aperto in quanto tale. E di cui i media non esitano ad appropriarsi quando hanno l’occasione di mostrarla in diretta, mentre sopraggiunge più o meno inattesa, colpisce e lascia sgomenti.
L’uccisione di Gheddafi e la morte di Simoncelli muovono, evidentemente, sentimenti ed emozioni di segno opposto, ma al fondo interpellano un comune senso di pietà. In entrambi i casi la spettacolarizzazione del momento in cui la loro esistenza si è fermata è scattata inesorabile, secondo le logiche del tritacarne mediatico che, a “beneficio” del suo pubblico, si appropria di tutto, anche della morte.