Pupi Avati spiega l’ottimo risultato della “fiction” andata in onda su Raiuno: «Credo che il motivo principale risieda nel fatto che, al di là degli orientamenti ideologici, nel profondo delle persone e a livello socio-culturale, ci sia veramente una nostalgia profonda di normalità»

di Maria Michela NICOLAIS

Pupi Avati
Milano, 02/02/2005. Conferenza stampa presentazione del film " Ma quando arrivano le ragazze? " - Pupi Avati ?? Luca Zanoni / Fotostore

Altro che “cinema della nostalgia” o operazione di retroguardia. Le sei puntate di Un matrimonio, la “fiction” – o meglio il film in 600 minuti, come lo definisce il regista – andata in onda su RaiUno, ha fatto il pieno di ascolti – cinque milioni in media di spettatori, con uno share che ha sfiorato il 20% -, aggiudicandosi regolarmente il trofeo della prima serata. E riuscendo a catturare un pubblico trasversale, fatto anche di moltissimi giovani, come dimostrano le numerosissime lettere di ringraziamento e felicitazioni. Prova evidente che il famigerato matrimonio “tradizionale” – anzi, il matrimonio senza aggettivi – e la famiglia sono ancora vivi e vegeti, in una vasta e insospettabile porzione del Paese. Con buona pace degli stereotipi, di segno totalmente opposto, veicolati e imposti dai media.

Ne abbiamo parlato con il regista, Pupi Avati, 75 anni di cui quasi 50 di matrimonio, maestro indiscusso del nostro cinema, che si è ispirato alla propria biografia per narrare le vicende di Carlo e Francesca, impersonati da Flavio Parenti e Micaela Ramazzotti. Protagonisti di un matrimonio capace di resistere alle intemperie di oltre cinquant’anni di vita insieme. Una storia che inizia nel dopoguerra e che viaggia tra Sasso Marconi, Bologna e Roma, attraversando le vicende del nostro Paese tra alti e bassi, momenti di felicità e di crisi. “Piccolo mondo moderno”, potremmo chiosare parafrasando Fogazzaro.

Maestro, com’è nata l’idea di Un matrimonio?
Il mio intento era quello di raccontare la verità, la normalità, la quotidianità di un matrimonio. Senza tradirlo, né edulcorarlo, né violentarlo con quegli artifizi ai quali in genere si ricorre.

Quali sono i motivi del successo che ha riscosso?
Credo che il motivo principale risieda nel fatto che, al di là degli orientamenti ideologici, nel profondo delle persone e a livello socio-culturale, ci sia veramente una nostalgia profonda di normalità. Non è tanto una questione di passato o di presente, ma di voglia di normalità, di restituzione a quelle che sono le hit parade dei valori veri, autentici, permanenti, non messi in discussione da mode e tendenze, dalla voglia continua di cambiare, sperimentare, provare… Soprattutto nel contesto familiare, dove oggi domina la deresponsabilizzazione dei ruoli, in particolar modo del ruolo paterno. Oggi la qualità dei padri è molto più scadente rispetto al passato: tutto ciò produce degli alibi che, attraverso i media, vengono rilanciati e provocano conseguenze disastrose.

E le vittime sono soprattutto i figli…
Io frequento molti giovani, ce ne sono molti nei miei set e io divento spesso per loro perfino un parroco, uno psichiatra, un confidente… Quando chiedo ai figli di genitori separati cosa è che vorrebbero di più, la risposta è sempre la stessa, a tutte le età: che mio padre e mia madre tornassero insieme. Non è vero che se ci si separa o no è la stessa cosa: con il matrimonio i genitori si assumono un dovere nei confronti dei figli, e per il bene dei figli il papà e la mamma devono dare una garanzia di continuità. Se si resiste alle vicissitudini, alle difficoltà e ai normali momenti di crisi, il matrimonio diventa molto più apprezzabile, nel tempo, di quanto non si possa immaginare. Invece, per la frettolosità si rischia di mandare all’aria un legame che – se non ci sono situazioni patologiche che rendono necessario interromperlo – potrebbe durare e produrre italiani più sereni e migliori anche nella vita civile.

La sua fiction è la rivincita del matrimonio “tradizionale”?
Per me non esistono alternative al matrimonio cattolico: o il matrimonio è un impegno al quale si promette tutto se stesso, «nel bene e nel male», o non è. I momenti bui e di turbolenza fanno parte del pacchetto, e una volta superati aumentano il grado di consapevolezza e di soddisfazione, facendoci capire che nessun altro essere umano può essere per noi così indispensabile ed esclusivo. In mia moglie c’è l’hard disk di tutta la mia vita, nessuno può sostituirla e io non potrei mai pensare a un altro che mi conosca allo stesso modo. Come un altro me stesso, con i miei pregi e i miei difetti. Certo, poi si litiga ogni giorno, ma anche questo fa parte della quotidianità di ogni buon matrimonio…

Se dovesse girare uno spot sul matrimonio, come lo spiegherebbe ai giovani?
Direi loro di confidare in qualcosa che ci precede e che prescinde da noi: la sacralità dei rapporti e della vita. E poi raccomanderei alle nuove generazioni anche un po’ più di sconsideratezza. Consiglierei loro di fare un po’ meno i conti. A mio avviso il matrimonio è cominciato a entrare in crisi nel momento in cui si è introdotta l’ipotesi della separazione dei beni. Se io comincio già col difendere la mia roba, vuol dire che non vedo le cose con gli stessi occhi della mia futura moglie o del mio futuro marito. Come faccio dire sullo schermo a Francesca, che lo ripete ai suoi figli, «le cose belle nella vita vanno fatte». E tra le cose belle, i gesti belli sono quelli assoluti. Quelli che vanno oltre la denuncia dei redditi e lo spread.

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