Racconti e immagini un anno dopo il terremoto che sconvolse il Paese asiatico
di Marco DERIU
Tra i grandi eventi che si imprimono nella memoria collettiva, quelli catastrofici hanno un posto particolare. Soprattutto quando sono dovuti a cause “naturali” e non alla mano dell’uomo, circostanza che aumenta da un lato la loro ineluttabilità e dall’altro la loro portata emotiva. A rilanciarne gli effetti sotto questo profilo intervengono in maniera decisiva i mass media, che con il la loro azione determinano la durata del fatto nella memoria collettiva.
Un anno fa, l’11 marzo 2011, il Giappone è stato scosso da un violentissimo terremoto e dal successivo tsunami – ormai abbiamo acquistato dimestichezza con questo termine, che rimanda a una gigantesca onda che si abbatte sulla terraferma -, la cui azione combinata ha distrutto l’area di Sendai e danneggiato gravemente molte altre zone del Paese.
L’impatto mediatico dell’evento è stato eccezionale, sia per gli esiti catastrofici in termini di danni, morti e feriti, sia per la portata del sisma. Si calcola che la scossa sia stata 30 mila volte più forte di quella che ha distrutto L’Aquila e che abbia provocato uno spostamento dell’asse terrestre di circa 17 centimetri. Secondo i sismologi si è trattato di uno dei dieci eventi sismici più violenti degli ultimi 150 anni, con un’intensità pari a 8,9 gradi della scala Richter.
Fra le conseguenze peggiori, oltre alla morte di più di 15 mila persone (cui si sono aggiunti circa 5.000 feriti e altrettanti dispersi), ricordiamo i danni irreversibili alla centrale nucleare di Fukushima e lo spegnimento automatico di altre dieci centrali nucleari da parte dei sistemi di emergenza. Il caso di Fukushima ha tenuto banco per molto tempo, salvo poi scomparire dalle cronache di attualità a cavallo della scorsa estate per essere ripreso soltanto sporadicamente in seguito.
Ripercorrere i numeri della tragedia a un anno di distanza ha l’effetto di riaprire nella nostra memoria il file relativo alla catastrofe che avevamo archiviato. Il tempo trascorso provoca nelle nostre menti la sensazione che tutto sia tornato come prima, ma basta un po’ di raziocinio e di buon senso per capire che il tempo trascorso non può essere bastato a cancellare le tracce del tragico sisma. E poi ci sono i dati relativi alle vittime, drammaticamente irreversibili.
In occasione di questo triste anniversario, le testate online e gli altri mezzi di comunicazione hanno aperto i loro spazi agli immancabili dossier su quanto è successo e su come si sta sviluppando la ricostruzione dopo un anno. Oltre alle immagini del “prima” e del “dopo” che si erano diffuse a ridosso dell’evento, sono state mostrate quelle della ricostruzione in corso, a testimonianza della volontà di ripresa del popolo giapponese e della parziale riduzione di una ferita che almeno in parte si va cicatrizzando.
Fra i numeri, non sempre accanto a quelli relativi alla conta dei danni e dei morti compaiono quelli che dovrebbero invece aprire la porta alla speranza. Per esempio, le cifre che rendono conto dell’entità degli aiuti internazionali, dell’enorme lavoro fatto dai volontari dalle organizzazioni non governative, degli aiuti umanitari che nell’immediato hanno reso meno drammatica l’emergenza.
La (ri)apertura di una finestra mediatica sul terremoto del Giappone oggi è utile a non dimenticare e, magari, a ridare impulso alla macchina della solidarietà che a riflettori spenti ha inevitabilmente rallentato la sua corsa. Ma presta anche il fianco a una spettacolarizzazione a distanza di tempo (e di spazio) che può allontanare ulteriormente dai nostri animi l’evento e le sue conseguenze, confinandone il racconto a una rappresentazione prevalentemente visiva che lo rende quasi irreale, come se si trattasse di un film o di una sorta di album dei (brutti) ricordi appartenente a qualcun altro.
Analogo discorso vale per tutti gli eventi tragici che i mass media rilanciano all’attenzione popolare, non ultimo – per restare entro i confini di casa nostra – il già citato terremoto a L’Aquila dell’aprile 2009: è percepito come molto lontano nella memoria popolare, dato che lo è di fatto in quella mediatica.
Di fronte a certe situazioni l’effetto a doppio taglio dei media è proprio questo: a caldo moltiplicano la portata dell’evento, salvo poi archiviarlo velocemente quando l’emozione popolare ha toccato il suo picco proprio in forza della spettacolarizzazione che è stata proposta e che finisce per saturare la curiosità popolare.