I repentini cambiamenti tecnologici e l’inadeguatezza culturale non bastano a spiegare un arretramento costante. C’è un gap generazionale che colpisce anche i giornalisti, i quali sanno bene di soffrire una crisi di credibilità e di autorevolezza. Hanno torto gli italiani nel ritenere i giornalisti poco autonomi, troppo compromessi coi sistemi di potere, poco veritieri?
di Andrea MELODIA
Presidente Unione Cattolica Stampa Italiana
I risultati disastrosi per la stampa italiana diffusi nei giorni scorsi dall’Autorità per le garanzie della comunicazione (nel 2013 sull’anno precedente: ricavi a -7% per i quotidiani, -17,2% per i periodici) richiedono una riflessione. Il peso della stampa rispetto all’intero settore della comunicazione (che chiude l’anno a -8,8%, trascinato in basso dai telefonici) è abbastanza limitato, ma la stampa è sostenuta da centinaia di piccole imprese in grande affanno, con pesanti cadute sulla libertà e il pluralismo dell’informazione, e naturalmente sui livelli occupazionali.
Inevitabile chiedersi se tutto questo sia effetto soltanto, o prevalentemente, della crisi economica o se altre cause abbiano contribuito in modo significativo a destabilizzare il sistema tradizionale dell’informazione. Anche gli indici per la radio, la televisione e perfino internet sono negativi, ma in modo più limitato. Almeno per il differenziale, che è pesantissimo soprattutto per i periodici, occorre trovare spiegazioni diverse dalla crisi generale.
Una prima categoria di motivi credo vada ricercata nei ritardi con cui in Italia si sono affrontati i grandi cambiamenti tecnologici e le conseguenti modifiche d’uso della funzione informativa. In un paese che non ha mai goduto di un brillante rapporto tra la grande opinione pubblica e la razionale consapevolezza dei problemi comuni – forse per il vizio di pensare per schemi ideologici – quando questi schemi sono andati in crisi, si sarebbe dovuto sviluppare la domanda di informazione per sostituire gli schemi con nuove competenze. Invece la trasformazione culturale è coincisa con quella tecnologica, che a partire dai giovani ha portato la progressiva disaffezione verso gli strumenti di informazione tradizionali, mentre i nuovi non si sono consolidati e professionalizzati adeguatamente.
Nel mondo industrializzato oggi si discute quasi esclusivamente di informazione “on line”. Le grandi testate si sono convertite alle nuove modalità informative “live”, in diretta. Non lo considerano un ripiego (“siamo in crisi, proviamo anche questa”) ma come una nuova frontiera sulla quale investire tutto per tutto. Chi può dire oggi, comprando il giornale del mattino o persino guardando il telegiornale della sera, di non essere già stato raggiunto per altra via da una parte considerevole delle informazioni? Neppure una decisa sterzata sulla strada dell’approfondimento e del commenti, certo opportuna, salva dal fatto che anche gli approfondimenti, e soprattutto i commenti, prolificano su internet. La sola possibile soluzione si chiama crossmedialità, cioè presenza contemporanea su tutti i mezzi adattando i contenuti alle caratteristiche di ciascuno. Strada obbligata anche per non essere travolti dal gap generazionale.
Già, ma il gap generazionale non riguarda solo i lettori, colpisce anche i giornalisti. Basta raccogliere informazioni su quello che accade nelle redazioni, anche quelle che si presentano come le più moderne, o cogliere gli umori dei giornalisti verso le vicende della categoria, come il rinnovo del contratto nazionale di lavoro o le norme sul funzionamento dell’Ordine professionale, per capire che crisi economica e trasformazione tecnologica vengono vissute solo come tragedie e non anche come opportunità. Certo è difficile adattarsi alla inattesa velocità del cambiamento, ma non ci sono alternative.
C’è un ultimo elemento di crisi, che si interseca con quelli descritti finora, quello della credibilità e della autorevolezza della categoria. Hanno torto gli italiani nel ritenere i giornalisti poco autonomi, troppo compromessi coi sistemi di potere, poco veritieri? Non direi, visto che i giornalisti hanno di se stessi opinioni analoghe. Norme deontologiche ridondanti e mal gestite, e soprattutto resistenza diffusa a una reale riflessione etica sulla professione, nelle sue diverse manifestazioni. Le redazioni, i singoli giornalisti e le loro forme associative sono oggi chiamati a un percorso di Mediaetica, per cercare di capire come lavorare bene, nelle varie pratiche professionali, rispettando soprattutto se stessi. È un passaggio indispensabile per ricostruire nel mondo digitale le motivazioni nobili di un mestiere che deve tornare ad essere strumento essenziale della democrazia.