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di Riccardo BENOTTI
È il 9 gennaio 1955, l’Italia si è lasciata la guerra alle spalle da un decennio e la rivoluzione dei consumi bussa alle porte di un Paese ancora non attrezzato per raccogliere la sfida. Alla guida dell’arcidiocesi di Milano da appena tre giorni, il cardinale Giovanni Battista Montini sceglie di visitare la cittadella industriale di Sesto San Giovanni. La diffidenza serpeggia tra i lavoratori della Stalingrado d’Italia, dove la forza del movimento sindacale esercita un grande ascendente e l’influenza del Partito Comunista si respira nell’aria. Montini, però, ha un’intuizione chiara che, negli anni, porterà avanti con determinazione: essere “l’arcivescovo dei lavoratori”, avvicinare il mondo del lavoro e far sentire la presenza della Chiesa a quegli operai che la catena di montaggio sta trasformando in automi. Il suo discorso è senza reticenze: “Quelli che credono che tra il popolo lavoratore e la Chiesa debbano esserci rapporti di separazione, e alcuni dicono perfino di inimicizia e di lotta, non si accorgono che tutto questo è fondato su un grande malinteso”.
Alla vita di Giovanni Battista Montini, e in particolare al periodo che intercorre tra il servizio presso la Segreteria di Stato e la fine del pontificato, è dedicato il dvd “Paolo VI. Il Papa della modernità” diretto da Luca Salmaso e prodotto dal Centro televisivo vaticano con Officina della comunicazione e Rai, in collaborazione con l’arcidiocesi di Milano, la diocesi di Brescia e l’Istituto Paolo VI. Il documentario, che esce a pochi giorni dalla beatificazione in Piazza San Pietro, propone numerosi filmati inediti e rinuncia alla voce narrante in forza del racconto che prende forma attraverso i contributi degli intervistati: il cardinale Loris Capovilla, il cardinale Angelo Scola, monsignor Luciano Monari, monsignor Nunzio Galantino, monsignor Dario E. Viganò, don Angelo Maffeis, Giselda Adornato, Lucetta Scaraffia, Andrea Riccardi, Luciano Pazzaglia. Ne esce un ritratto originale e sfaccettato di un Papa “del dramma della libertà di ogni uomo” (Scola), “di un ideale di Chiesa aperta al mondo” (Pazzaglia), “di una transizione epocale” (Viganò), “dei viaggi” (Riccardi), “del Vaticano II” (Maffeis), “aperto alla modernità e curioso della modernità” (Scaraffia).
Dopo gli studi condotti da esterno, a causa della salute cagionevole, prima nel collegio dei gesuiti “Cesare Arici” e poi nel liceo statale “Arnaldo da Brescia”, Montini entra nel seminario della sua città durante l’autunno del 1916. La preoccupazione per una formazione religiosa a distanza è sempre presente ma gli anni che seguono delineano la personalità del futuro Papa, la cui avversione al fascismo si manifesterà in una condotta irreprensibile, sebbene non contraddistinta da gesti clamorosi, a testimonianza dell’impossibilità di conciliazione tra fascismo e cristianesimo. Nel 1937 la nomina a sostituto della Segreteria di Stato, dove lavora a stretto contatto con l’allora cardinale segretario Eugenio Pacelli e si occupa intensamente dell’Ufficio informazioni del Vaticano che negli anni del conflitto bellico impiega quasi mille persone e gestisce fino a 10 milioni di richieste di aiuto di soldati, dispersi, profughi, feriti, famiglie. All’allontanamento dalla Capitale – “Pio XII accontenta il partito romano di ecclesiastici che non vuole la sua elezione a cardinale, acconsente che Montini se ne vada da Roma ma lo protegge e lo fa arcivescovo di Milano” (Riccardi) -, seguono gli anni fondamentali dell’esperienza ambrosiana all’insegna del perenne riformismo cristiano, con uno sguardo critico ai difetti del progresso ma l’attenzione costante a valorizzare quanto vi è di bene. Per Montini, “Milano è il grande incontro con la modernità e qui concepisce la sua idea dell’evangelizzazione” (Scola). A Natale del 1968, ormai salito al soglio pontificio, va in visita all’Ilva di Taranto: “Noi facciamo fatica a parlarvi. Noi avvertiamo la difficoltà a farci capire da voi. O Noi forse non vi comprendiamo abbastanza? (…) Il lavoro e la religione, nel nostro mondo moderno, sono due cose separate, staccate, tante volte anche opposte (…) Siamo venuti qua fra voi per dirvi che questa separazione fra il vostro mondo del lavoro e quello religioso, quello cristiano, non esiste, o meglio non deve esistere”.
Quindi l’esperienza del Concilio, la cui eredità passa nelle mani di Montini che accetta “per continuare l’opera avviata da Papa Giovanni” (Capovilla). Dal Vaticano II esce un’idea di ecclesialità cara a Paolo VI: “La Chiesa che celebra è anche la Chiesa che testimonia, che si sente mandata per strada” (Galantino). E ancora la premura per l’arte contemporanea sacra, gli anni di Piombo – “E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro” – e la pubblicazione della “Humanae Vitae” che divide in due fasi il pontificato: prima considerato Papa aperto alla modernità, Montini verrà poi avvertito come un nemico dei progressisti. Senza dimenticare la stagione dei viaggi ecumenici “iniziata proprio per sua volontà” (Adornato), l’incontro con Atenagora e l’impegno per condurre una politica verso il Terzo Mondo diversa da quella imposta da Usa e Urss.
Negli ultimi anni Montini manifesta il timore di non poter portare a termine il suo lavoro in pienezza di salute. Muore il 6 agosto 1978 nella residenza estiva dei Papi a Castel Gandolfo. Lascia scritto nel testamento: “Prego il Signore che mi dia grazia di fare della mia prossima morte dono d’amore alla Chiesa”.