Dopo il monito del cardinale Tettamanzi sul clima avvelenato, interviene Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale
di Pino NARDI
Il cardinale Tettamanzi ha colto nel segno. Dall’alto del nuovo grattacielo che sovrasta la città, il Palazzo Lombardia, accanto alla copia della Madonnina appena benedetta, ha rivolto lo sguardo alle istituzioni, alla profonda crisi che stanno attraversando. Soprattutto di credibilità. Lo pensa anche Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale. Che aggiunge: «Anche la frequente “denigrazione” della Costituzione come tavola di valori condivisi della società, e la continua invocazione di “riforme” costituzionali del cui contenuto poco ci si occupa, o che metterebbero a rischio i principi e gli equilibri di fondo su cui si regge il sistema democratico, contribuiscono a creare questo clima».
Professor Onida, l’Arcivescovo ha lanciato un grido di allarme sullo stato delle istituzioni e sul crollo di fiducia nell’opinione pubblica. Come valuta questa analisi?
Realistica. Aggressività politica, accanimento mediatico, pronunciamenti indebiti da parte di figure istituzionali, illusione dell’immagine, ricerca della spettacolarità e – potremmo aggiungere – individualismo e particolarismo esasperati, dispregio per le virtù civiche, primato degli interessi di parte su quelli generali: sono fatti e atteggiamenti che tutti vediamo ogni giorno. Il risultato è la caduta della fiducia delle persone nei confronti delle istituzioni, in particolare delle istituzioni politiche.
Cosa occorre fare per tornare a una politica alta, a un progetto di ampio respiro?
Un progetto politico alto, di ampio respiro, esige due cose: una visione dei caratteri fondamentali della società che vogliamo costruire (guardare lontano), e la capacità di compiere i passi realisticamente possibili ed efficaci per camminare in quella direzione (sapere dove mettere i piedi). Pensiamo all’esempio dell’Europa: quando, 60 anni fa, i padri dell’Europa vollero (come disse Robert Schuman) fare in modo che una nuova guerra in questa parte del mondo divenisse non solo impensabile, ma materialmente impossibile, e a questo fine seppero compiere i primi, apparentemente piccoli passi, come la fondazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, primo nucleo della costruzione comunitaria, avevano una visione (potevano perfino sembrare utopisti), ma sapevano anche realizzare i passi giusti. Erano dei veri politici.
Non mancano in queste settimane notizie su fenomeni di corruzione. Secondo lei c’è una Tangentopoli2 sotterranea?
Non so se oggi vi sia più o meno o altrettanta corruzione nel nostro Paese, quanto 20 anni fa. Ma, almeno, dalle vicende passate dovremmo avere imparato qualcosa. In primo luogo, che non ci si deve rassegnare all’idea che la corruzione sia inevitabile e non controllabile, perché la politica deve saper assicurare il rispetto di uno standard accettabile di etica pubblica diffusa e condivisa. In secondo luogo, che certe deviazioni manifestatesi a partire da quell’epoca, dagli eccessi di protagonismo giudiziario all’uso indiscriminato in politica e sui mezzi di comunicazione delle vicende giudiziarie e degli atti di indagine, alla violazione di garanzie essenziali, alla confusione fra difesa in giudizio e uso a questo scopo degli strumenti politici e legislativi, devono essere criticate e combattute.
Dare un’anima all’identità della società civile capace di dialogo, auspica l’Arcivescovo. Tuttavia esistono segnali di chiusure, paure, anche forme di razzismo. Milano e la Lombardia possono recuperare la propria storia di accoglienza e integrazione?
L’idea di contrapporre difesa della propria identità all’apertura agli altri, agli stranieri, è profondamente sbagliata. Attizzare e diffondere la paura e chiudersi in atteggiamenti difensivi, erigendo muri e non ponti, è segno di insicurezza e di arroganza. Negare agli stranieri di altre religioni il diritto di edificare e usare propri luoghi pubblici di culto; vedere negli stranieri immigrati una minaccia al nostro modo di vivere e non un’occasione di arricchimento culturale e civile; discriminare gli stranieri nel godimento di diritti sociali (come per certe provvidenze personali o familiari riservate ai cittadini italiani); perseguire una politica dell’immigrazione che si limita a criminalizzare l’immigrazione illegale (che, in quanto illegale, non va certo incoraggiata né ignorata) anziché promuovere e governare saggiamente ed efficacemente l’immigrazione legale, sempre con attenzione ai diritti fondamentali della persona: sono tutti segni di una comunità che non crede in se stessa e nei valori comuni dell’umanità, ma pensa di difendere un proprio possesso geloso anziché spendere i talenti che si hanno per il vantaggio di tutti. In questi tempi di crisi vissuta o temuta, chi si preoccupa, per esempio, delle sue ripercussioni a danno delle popolazioni e dei territori meno sviluppati? Chi si preoccupa non solo della “ripresa”, ma di un progresso dell’eguaglianza e della solidarietà a livello mondiale?