Questi i contenuti del convegno diocesano della Caritas Ambrosiana, in programma a Villa Sacro Cuore di Triuggio
di Roberto DAVANZO
Direttore Caritas Ambrosiana
Gli anniversari, i compleanni, le ricorrenze servono. Non certo a celebrare, magari con un pizzico di nostalgia, un tempo che non c’è più, bensì per trovare la forza, la passione e la fantasia per proiettarci verso il futuro. Non tanto per compiacerci delle cose belle fatte ieri, ma per scoprire di avere ancora abbondanti risorse per affrontare gli impegni di oggi e di domani.
Con questi sentimenti ci diamo appuntamento al prossimo convegno di Triuggio che si svolgerà sabato 10 e domenica 11 settembre e durante il quale cercheremo di fare memoria nel modo giusto del convegno “Farsi prossimo”, che si svolse esattamente 25 anni orsono, e che rappresentò un punto di non ritorno per la nostra Diocesi e il modo di concepire un esercizio moderno della carità.
A 25 anni di distanza ci troviamo a vivere una stagione per certi versi contradittoria: da un lato l’aumentare dei bisogni, l’affacciarsi di sempre nuove forme di povertà, l’incalzare di situazioni di emergenza che ci provocano a risposte esigenti. Dall’altro, la percezione di una fatica inedita che si manifesta, ad esempio, nel non riuscire a rinnovare il nostro “parco volontari”, nel non percepire adeguatamente l’appoggio cordiale di quanti compongono le comunità cristiane, nel subire la tentazione di un “fare la carità” che si accontenta di una pur necessaria ma insufficiente distribuzione di pacchi viveri…
Dunque: perché facciamo fatica a essere riconosciuti e apprezzati anche all’interno delle nostre comunità parrocchiali? Perché la nostra azione di contrasto della povertà è così in deficit quando deve impegnarsi nell’animazione e nella sensibilizzazione? Che cosa ci manca, in che cosa dobbiamo cambiare? Che cosa non abbiamo compreso dei cambiamenti avvenuti in questi 25 anni? Sono solo alcune delle provocazioni che intercettiamo regolarmente nei nostri incontri parrocchiali e decanali e alle quali vorremmo tentare di dare risposta, consapevoli di essere portatori di un patrimonio ideale ed esperienziale capace di metterci di fronte alle sfide della povertà con uno stile assolutamente evangelico e moderno che tenterei di esemplificare in questo modo.
Primo. Una carità che diventa strumento di evangelizzazione in un tempo multiculturale e multireligioso. Una carità con cui riusciamo a dire i contenuti del Vangelo anche quando ci troviamo di fronte a uomini e donne a cui non ci è possibile fare direttamente il nome di Gesù. Abbiamo sempre sconfitto l’invito che da diverse parti ci veniva rivolto di una carità anzitutto ai “nostri”, magari in nome della difesa di una non meglio precisata identità cristiana. Le nostre porte sono sempre state aperte a chiunque fosse portatore di un bisogno. Semmai dobbiamo chiederci se questo nostro operare è sempre stato accompagnato dalla consapevolezza del potenziale missionario del nostro agire.
Secondo. Un “fare la carità” capace di collocarsi in modo corretto nel quadro di un Welfare in profondo mutamento, evitando gli scogli del centralismo istituzionale e di una sussidiarietà deresponsabilizzante. In questo non possiamo nasconderci dietro un dito: all’interno della comunità cristiana ci sono diffuse concezioni che, isolando qualche aspetto della dottrina sociale della Chiesa, portano a un “fare la carità” incapace di riconoscere la difesa dei diritti di tutti e superbamente illuso di poter fare a meno dell’indispensabile ruolo delle istituzioni. Per questo il nostro modo di “fare la carità” è più difficile: ci chiede interdipendenza tra pensiero e azione, capacità organizzativa e interlocuzione leale e stimolante con le pubbliche amministrazioni. Liberi tanto da meschine strumentalizzazioni, quanto da relazioni poco chiare con l’assessore di turno.
Terzo. Una carità che assume un respiro internazionale, che risponde alle emergenze ma che si chiede come farsi prossimi ai popoli lontani, prima che siano i loro problemi a farsi a noi vicini. È la grande lezione che ci sta venendo dall’emergenza profughi nordafricani. Dove i Paesi occidentali – compreso il nostro – sono stati velocissimi nel mettere in piedi un intervento militare, peraltro ancora molto confuso nei suoi obiettivi strategici, ma drammaticamente lenti nell’affrontare l’emergenza umanitaria. A dire che il nostro modo di “fare la carità” non può non fare i conti con la diffusione di una cultura di pace e di soluzione pacifica dei conflitti. È su questi e altri argomenti che vorremmo ragionare assieme nel prossimo convegno di Triuggio e nell’anno pastorale che verrà. Certo, la nostra è una carità difficile, ma anche attuale ed evangelica. E questo la rende straordinariamente affascinante.