La storia dei sette monaci martiri in Algeria nel 1996 è al centro del film "Uomini di Dio", che mercoledì 10 novembre verrà proiettato in esclusiva per i preti ambrosiani al Seminario di Seveso
di Anna POZZI
Redazione
È una mattina gelida e nebbiosa sulle alture di Medea. E il monastero di Tibhirine, nonostante la sua mole imponente, si cela tra queste brume invernali, gonfie di nevischio. Sembra di essere nella scena finale di Uomini di Dio, il film di Xavier Beauvois, che porta sullo schermo con straordinaria efficacia la vicenda drammatica dei monaci di Tibhirine, rapiti e uccisi nel 1996, durante il decennio funesto del terrorismo islamico in Algeria. Nel film i sette monaci spariscono nella nebbia che avvolge un sentiero di montagna innevato, scortati dai loro rapitori. La loro fine la si lascia solo intuire. È un “ad-Dio”, come scrive il priore Christian de Chergé, il compimento di una «vita “donata” a Dio e a quel Paese».
Oggi il monastero di Tibhirine continua a custodire la memoria di quel tragico evento. Le tombe dei sette monaci uccisi, giacciono, in tutta la loro semplicità, accanto a quelle dei loro confratelli che qui vissero e morirono durante i 60 anni di presenza trappista su queste alture, a un centinaio di chilometri a sud della capitale Algeri.
Ma quello di Tibhirine non è solo un luogo della memoria. Certo, il rapimento e l’uccisione dei monaci hanno lasciato un segno profondo non solo in questo monastero, ma nella Chiesa d’Algeria e, in un certo senso, nel Paese. Il loro assassinio e il ritrovamento delle teste provocarono un’emozione fortissima nella piccola comunità cristiana e in moltissimi musulmani. Perché la barbara uccisione di questi “uomini di Dio”, dediti alla preghiera e al lavoro, autenticamente fratelli dei loro vicini musulmani? Martiri, in un certo senso malgrado loro stessi, come lo furono gli altri 11 religiosi e religiose uccisi prima di loro, e come lo fu monsignor Pierre Claverie, vescovo di Orano, assassinato nell’agosto dello stesso anno.
Ma il titolo del film in francese – Des hommes et des Dieux – dice qualcosa di più. Dice l’umanità di questi uomini, i loro dubbi, il loro travaglio interiore, le loro fragilità e anche le loro paure. Ma dice anche la loro scelta radicale e il senso del loro essere lì. Per fedeltà e amore. Fedeltà e amore per il Vangelo e per i fratelli musulmani, con cui avevano deciso di condividere sino in fondo la loro esistenza. Anche al prezzo della loro vita. «Voi siete i rami su cui noi ci posiamo – dice una donna del villaggio -. Se ve ne andate, che ne sarà di noi?».
I monaci decisero di restare. Qualcuno decise di farli fuori. Ma il loro sacrificio non è stato vano. Il loro sangue, come quello di tutti e 19 i martiri cristiani, ha fecondato in maniera nuova e diversa la presenza cristiana in questo travagliato Paese. Non più una Chiesa di stranieri in Algeria, ma autenticamente una Chiesa d’Algeria. Che appartiene intrinsecamente a questo Paese.
Così come continua ad appartenervi il monastero di Tibhirine. Da allora vive di una vita precaria e sospesa. Dopo un nuovo tentativo infruttuoso dei trappisti di ritornarvi tra il 1998 e il 2000, un prete della Mission de France, padre Jean Marie Lassausse, garantisce la continuità dei lavori agricoli e dell’allevamento, il sostegno alla scuoletta del villaggio, i rapporti con la gente del posto, l’accoglienza di gruppi di pellegrini. Una volta alla settimana una suora messicana anima un laboratorio di ricamo, a cui partecipano diverse ragazze del villaggio. Anche alcune monache certosine hanno cercato di installarsi qui, ma per il momento mancano le condizioni per una presenza permanente.
«La fedeltà a questi luoghi e alla memoria dei monaci significa innanzitutto una presenza giocata nel lungo periodo – dice padre Jean Marie -. Quella dei monaci è stata una scelta di fedeltà sino al sacrificio, che rilancia una sfida sempre attuale e che continua a interpellarci: quella del “vivere-con”, a qualsiasi prezzo». È questo, dice «il senso più profondo della nostra testimonianza cristiana in terra d’islam e l’essenza del nostro dialogo interreligioso: dialogo fatto soprattutto di presenza, incontri, amicizie, lavoro condiviso. Insomma, cose semplici della vita di tutti i giorni». È una mattina gelida e nebbiosa sulle alture di Medea. E il monastero di Tibhirine, nonostante la sua mole imponente, si cela tra queste brume invernali, gonfie di nevischio. Sembra di essere nella scena finale di Uomini di Dio, il film di Xavier Beauvois, che porta sullo schermo con straordinaria efficacia la vicenda drammatica dei monaci di Tibhirine, rapiti e uccisi nel 1996, durante il decennio funesto del terrorismo islamico in Algeria. Nel film i sette monaci spariscono nella nebbia che avvolge un sentiero di montagna innevato, scortati dai loro rapitori. La loro fine la si lascia solo intuire. È un “ad-Dio”, come scrive il priore Christian de Chergé, il compimento di una «vita “donata” a Dio e a quel Paese».Oggi il monastero di Tibhirine continua a custodire la memoria di quel tragico evento. Le tombe dei sette monaci uccisi, giacciono, in tutta la loro semplicità, accanto a quelle dei loro confratelli che qui vissero e morirono durante i 60 anni di presenza trappista su queste alture, a un centinaio di chilometri a sud della capitale Algeri.Ma quello di Tibhirine non è solo un luogo della memoria. Certo, il rapimento e l’uccisione dei monaci hanno lasciato un segno profondo non solo in questo monastero, ma nella Chiesa d’Algeria e, in un certo senso, nel Paese. Il loro assassinio e il ritrovamento delle teste provocarono un’emozione fortissima nella piccola comunità cristiana e in moltissimi musulmani. Perché la barbara uccisione di questi “uomini di Dio”, dediti alla preghiera e al lavoro, autenticamente fratelli dei loro vicini musulmani? Martiri, in un certo senso malgrado loro stessi, come lo furono gli altri 11 religiosi e religiose uccisi prima di loro, e come lo fu monsignor Pierre Claverie, vescovo di Orano, assassinato nell’agosto dello stesso anno.Ma il titolo del film in francese – Des hommes et des Dieux – dice qualcosa di più. Dice l’umanità di questi uomini, i loro dubbi, il loro travaglio interiore, le loro fragilità e anche le loro paure. Ma dice anche la loro scelta radicale e il senso del loro essere lì. Per fedeltà e amore. Fedeltà e amore per il Vangelo e per i fratelli musulmani, con cui avevano deciso di condividere sino in fondo la loro esistenza. Anche al prezzo della loro vita. «Voi siete i rami su cui noi ci posiamo – dice una donna del villaggio -. Se ve ne andate, che ne sarà di noi?».I monaci decisero di restare. Qualcuno decise di farli fuori. Ma il loro sacrificio non è stato vano. Il loro sangue, come quello di tutti e 19 i martiri cristiani, ha fecondato in maniera nuova e diversa la presenza cristiana in questo travagliato Paese. Non più una Chiesa di stranieri in Algeria, ma autenticamente una Chiesa d’Algeria. Che appartiene intrinsecamente a questo Paese.Così come continua ad appartenervi il monastero di Tibhirine. Da allora vive di una vita precaria e sospesa. Dopo un nuovo tentativo infruttuoso dei trappisti di ritornarvi tra il 1998 e il 2000, un prete della Mission de France, padre Jean Marie Lassausse, garantisce la continuità dei lavori agricoli e dell’allevamento, il sostegno alla scuoletta del villaggio, i rapporti con la gente del posto, l’accoglienza di gruppi di pellegrini. Una volta alla settimana una suora messicana anima un laboratorio di ricamo, a cui partecipano diverse ragazze del villaggio. Anche alcune monache certosine hanno cercato di installarsi qui, ma per il momento mancano le condizioni per una presenza permanente.«La fedeltà a questi luoghi e alla memoria dei monaci significa innanzitutto una presenza giocata nel lungo periodo – dice padre Jean Marie -. Quella dei monaci è stata una scelta di fedeltà sino al sacrificio, che rilancia una sfida sempre attuale e che continua a interpellarci: quella del “vivere-con”, a qualsiasi prezzo». È questo, dice «il senso più profondo della nostra testimonianza cristiana in terra d’islam e l’essenza del nostro dialogo interreligioso: dialogo fatto soprattutto di presenza, incontri, amicizie, lavoro condiviso. Insomma, cose semplici della vita di tutti i giorni». A Seveso proiezione e dibattito – Mercoledì 10 novembre, alle 20, presso il Seminario di Seveso, i preti della Diocesi sono invitati alla proiezione esclusiva del film Uomini di Dio. Ne parlaranno i giornalisti Gerolamo Fazzini e Anna Pozzi; l’abate Luigi Gioia, mentre la visione del film sarà introdotta da don Gianluca Bernardini. Per partecipare: inviare mail entro lunedì 8 novembre a comunicazione @diocesi.milano.it �o tel. 02.8556304.