La riflessione di Silvia Vegetti Finzi
di Silvia VEGETTI FINZI Pedagogista, psicologa e scrittrice
Redazione
Le città non sono mai state fatte a “misura di bambino”, ma negli ultimi anni sono diventate più inospitali che mai. Non mi riferisco tanto a problemi ambientali: smog sopra i limiti massimi, traffico caotico, servizi sociali insufficienti, costi delle abitazioni in costante levitazione. Penso piuttosto al rapporto adulti-bambini, all’indifferenza, alla solitudine, talora all’insofferenza che li circonda. Il primo posto nella graduatoria del malessere spetta indubbiamente ai piccoli Rom, bambini costretti a pellegrinare da un campo nomadi all’altro, luoghi equiparati dallo squallore e dal degrado. Ma poiché anche nella notte più nera brilla qualche luce, occorre segnalare l’impegno e il coraggio con cui gli insegnanti che li conoscono e li stimano si battono per la difesa dei loro diritti. Non vorrei inoltre dimenticare i bambini invisibili, quelli che, per essere figli di immigrati clandestini, legalmente "non esistono". E poi i bambini provenienti da Paesi lontani, da culture molto diverse dalle nostre, impegnati a integrarsi in una società dove i pregiudizi trovano spesso udienza e legittimazione. E ancora quelli che, appartenendo a famiglie particolarmente colpite dalla crisi economica, vivono nell’insicurezza e nella paura del domani. La maggioranza però non manca di niente perché, pur nelle ristrettezze, si cerca di dare tutto ai bambini, spesso troppo. Molti sono figli unici, circondati da genitori, zii, nonni, talora bisnonni. Hanno tutto il superfluo, ma manca l’essenziale: spazio e tempo per loro. La paura dell’estraneo, del maniaco, del traffico e dello smog hanno desertificato le nostre città. In compenso aumentano gli impegni organizzati: scuola a tempo pieno, corsi di nuoto, di ginnastica, di yoga, di pittura, di teatro… Nulla è lasciato alla spontaneità, al gioco, alla fantasia. Nella società delle assicurazioni, siamo incapaci di accettare qualche ragionevole rischio per cui i bambini crescono senza mettersi alla prova: non sanno arrampicarsi su un albero, saltare un fosso, lanciare un sasso. Questa è la prima generazione che non si è mai sbucciata le ginocchia. Guardati a vista dagli adulti, non conoscono le strategie della socializzazione, la gestione dei conflitti, l’elaborazione delle frustrazioni. Nonostante l’apparente appagamento, i loro più profondi desideri, considerati irrealizzabili, restano spesso inascoltati. Vorrebbero trascorrere più tempo a casa, in famiglia, con la mamma accanto, vorrebbero dei fratellini e infine spazi dove incontrare gli amici per giocare, bisticciare, annoiarsi. In compenso i genitori, che a torto o a ragione si sentono in colpa per il poco tempo che dedicano ai figli, cercano di rimediare colmandoli di oggetti. A Natale i bambini chiedono in media 4 regali, ne ricevono 11: 7 di troppo. Il superfluo non solo è inutile ma dannoso perché, saturando il desiderio, tacita la domanda, spegne l’attesa, devitalizza la tensione verso il futuro, rende apatici e indifferenti. Atteggiamenti che, maturati nell’infanzia, si ritrovano poi in molte, troppe adolescenze. Continuiamo a pensare che i ragazzi siano bramosi di oggetti e avidi di esperienze come negli anni ’80, invece aumenta il numero di quelli che non chiedono niente. Chiusi in una disperazione silenziosa, trascurano gli studi, si allontanano dagli amici, non coltivano interessi. Il loro mondo è altrove: nello spazio virtuale di Internet dove navigano e naufragano in silenzio. La sfida è di riportarli tra noi perché, senza ricambio generazionale, le città del mondo invecchiano tristemente. Le città non sono mai state fatte a “misura di bambino”, ma negli ultimi anni sono diventate più inospitali che mai. Non mi riferisco tanto a problemi ambientali: smog sopra i limiti massimi, traffico caotico, servizi sociali insufficienti, costi delle abitazioni in costante levitazione. Penso piuttosto al rapporto adulti-bambini, all’indifferenza, alla solitudine, talora all’insofferenza che li circonda. Il primo posto nella graduatoria del malessere spetta indubbiamente ai piccoli Rom, bambini costretti a pellegrinare da un campo nomadi all’altro, luoghi equiparati dallo squallore e dal degrado. Ma poiché anche nella notte più nera brilla qualche luce, occorre segnalare l’impegno e il coraggio con cui gli insegnanti che li conoscono e li stimano si battono per la difesa dei loro diritti. Non vorrei inoltre dimenticare i bambini invisibili, quelli che, per essere figli di immigrati clandestini, legalmente "non esistono". E poi i bambini provenienti da Paesi lontani, da culture molto diverse dalle nostre, impegnati a integrarsi in una società dove i pregiudizi trovano spesso udienza e legittimazione. E ancora quelli che, appartenendo a famiglie particolarmente colpite dalla crisi economica, vivono nell’insicurezza e nella paura del domani. La maggioranza però non manca di niente perché, pur nelle ristrettezze, si cerca di dare tutto ai bambini, spesso troppo. Molti sono figli unici, circondati da genitori, zii, nonni, talora bisnonni. Hanno tutto il superfluo, ma manca l’essenziale: spazio e tempo per loro. La paura dell’estraneo, del maniaco, del traffico e dello smog hanno desertificato le nostre città. In compenso aumentano gli impegni organizzati: scuola a tempo pieno, corsi di nuoto, di ginnastica, di yoga, di pittura, di teatro… Nulla è lasciato alla spontaneità, al gioco, alla fantasia. Nella società delle assicurazioni, siamo incapaci di accettare qualche ragionevole rischio per cui i bambini crescono senza mettersi alla prova: non sanno arrampicarsi su un albero, saltare un fosso, lanciare un sasso. Questa è la prima generazione che non si è mai sbucciata le ginocchia. Guardati a vista dagli adulti, non conoscono le strategie della socializzazione, la gestione dei conflitti, l’elaborazione delle frustrazioni. Nonostante l’apparente appagamento, i loro più profondi desideri, considerati irrealizzabili, restano spesso inascoltati. Vorrebbero trascorrere più tempo a casa, in famiglia, con la mamma accanto, vorrebbero dei fratellini e infine spazi dove incontrare gli amici per giocare, bisticciare, annoiarsi. In compenso i genitori, che a torto o a ragione si sentono in colpa per il poco tempo che dedicano ai figli, cercano di rimediare colmandoli di oggetti. A Natale i bambini chiedono in media 4 regali, ne ricevono 11: 7 di troppo. Il superfluo non solo è inutile ma dannoso perché, saturando il desiderio, tacita la domanda, spegne l’attesa, devitalizza la tensione verso il futuro, rende apatici e indifferenti. Atteggiamenti che, maturati nell’infanzia, si ritrovano poi in molte, troppe adolescenze. Continuiamo a pensare che i ragazzi siano bramosi di oggetti e avidi di esperienze come negli anni ’80, invece aumenta il numero di quelli che non chiedono niente. Chiusi in una disperazione silenziosa, trascurano gli studi, si allontanano dagli amici, non coltivano interessi. Il loro mondo è altrove: nello spazio virtuale di Internet dove navigano e naufragano in silenzio. La sfida è di riportarli tra noi perché, senza ricambio generazionale, le città del mondo invecchiano tristemente.