Afffonda le sue radici�nella Sacra Scrittura�la riflessione sulla "società ospitale" che l'arcivescovo Dionigi Tettamanzi ha tenuto venerdì 28 maggio al Festival Biblico di Vicenza

di Pino NARDI
Redazione

«Sono consapevole della vastità e della complessità del fenomeno dell’immigrazione oggi, che comprensibilmente genera non pochi problemi di ordine pubblico, di risorse, di integrazione… Mi domando: sta davvero qui il cuore della questione? Per la nostra società gli immigrati sono un problema solo perché sono troppi? Oppure ci fanno paura in quanto “stranieri”? Confessiamolo: quanti italiani teniamo ai margini perché in qualche modo “stranieri”, diversi da noi? Penso ai malati gravi – e tra loro a quelli che soffrono patologie psichiche -, ai carcerati, ai barboni, ai portatori di handicap, agli anziani… Circa queste persone la Bibbia ha una parola preziosa e ci aiuta ad andare alla radice: l’immigrato è per noi un problema perché è uno “straniero”!». Il cardinale Tettamanzi ha parlato così nella cattedrale di Vicenza venerdì 28 maggio al Festival Biblico, dove ha tenuto una |Lectio magistralis dal titolo Dall’ospitalità delle Scritture ad una società ospitale.
Un calarsi nella Parola per trovare le parole e le riflessioni giuste per un tempo come il nostro così pieno di paure. «È a questo livello più profondo e più personale e personalizzante che ci rimandano le Scritture e così esse diventano, anche per noi oggi, un richiamo originale e forte alla “norma fondamentale”, quella che sta alla base di tutti i comportamenti di una ospitalità che vuole e deve essere coerente con la persona umana».
Tettamanzi ripropone alla riflessione e al dibattito pubblico il cuore e il pilastro della questione, da cui necessariamente non si po’ deviare: al centro c’è la persona come tale e il rispetto della sua dignità, al di là del colore della sua pelle, della cultura, ma anche della propria condizione sociale, dall’essere o meno considerato marginale dalla società. Precisa il Cardinale: «Ora possiamo dire, in termini estremamente sintetici, che questa norma riposa: sulla dignità personale di tutti gli esseri umani e di ciascuno di essi, dappertutto e sempre; sulla relazionalità come Dna strutturale-dinamico-finalistico della persona, quale “io” aperto al “tu” nel duplice senso dell’essere “con” e “per” l’altro; sulla moralità secondo le esigenze della giustizia e della carità».
Tutto questo però richiede coerenza e profondità di valori vissuti, che rifugga da facili sentimentalismi, che durano lo spazio di un’emozione. Un ruolo importante lo svolgono anche i media, non sempre in positivo. «C’è il rischio di un fraintendimento nel nostro modo di impegnarci per gli altri – sottolinea l’Arcivescovo -. Guardiamo, ad esempio, a certi eventi lontani, su cui siamo informati dai mass media. Al momento siamo molto coinvolti e commossi per quanto stiamo ascoltando o vedendo e siamo disposti ad aiutare, anche concretamente, le sfortunate vittime di una qualche catastrofe. Ma la notizia diventa presto una semplice “informazione” e velocemente invecchia. Il punto allora è quello di mantenere “caldo” il coinvolgimento emotivo insieme al coraggio di decisioni morali capaci di trasformare la nostra vita nel quotidiano. La tentazione cui siamo oggi esposti è quella di distanziare il prossimo rendendolo “lontano” e di avvicinare il lontano rendendolo “prossimo” solo emotivamente, fintanto che egli non diventi davvero un insopportabile “vicino”». È dunque un’illusione nella società globalizzata pensare di tenere lo “straniero” fuori dalle “mura”. Perché a fenomeni epocali vanno date risposte serie di accoglienza e integrazione. «I flussi di stranieri che bussano alle porte delle società occidentali sono mossi soprattutto dalla povertà e dalla persecuzione politica. La loro condizione di debolezza mette noi in posizione di maggiore forza ed efficacia qualora decidessimo di impegnarci tutti – e tutti insieme – a governare responsabilmente il fenomeno. Spesso invece l’uso strumentale del problema, le politiche di corto respiro, la fatica a considerare questa realtà a livello globale impediscono un serio e risolutivo intervento». E il Cardinale getta lo sguardo avanti, a un futuro non così lontano e si domanda: «Cosa capiterà – provo ad immaginare – quando non saranno più gli immigrati poveri a bussare alle nostre porte? Cosa capiterà quando saranno tra noi molti immigrati in condizione di “forza” (lavorativa, economica, culturale, scientifica…) e ci chiederanno di confrontarci con loro? Corriamo il rischio di smarrirci nella nostra identità se – mossi dalla paura e chiusi in noi stessi nell’illusoria convinzione di essere protetti dalle barriere economiche, sociali e religiose che a fatica ci stiamo costruendo – non ci educhiamo al confronto, al dialogo, alla relazione profonda con lo “straniero”». Ecco allora la via che l’Arcivescovo indica: «È tempo di vivere sempre più le nostre radici cristiane: quando sono autenticamente nutrite dalla sapienza biblica ci sospingono a vedere l’altro come risorsa e dono e ci rendono capaci di affrontare anche i non piccoli problemi che ogni confronto porta con sé».

«Sono consapevole della vastità e della complessità del fenomeno dell’immigrazione oggi, che comprensibilmente genera non pochi problemi di ordine pubblico, di risorse, di integrazione… Mi domando: sta davvero qui il cuore della questione? Per la nostra società gli immigrati sono un problema solo perché sono troppi? Oppure ci fanno paura in quanto “stranieri”? Confessiamolo: quanti italiani teniamo ai margini perché in qualche modo “stranieri”, diversi da noi? Penso ai malati gravi – e tra loro a quelli che soffrono patologie psichiche -, ai carcerati, ai barboni, ai portatori di handicap, agli anziani… Circa queste persone la Bibbia ha una parola preziosa e ci aiuta ad andare alla radice: l’immigrato è per noi un problema perché è uno “straniero”!». Il cardinale Tettamanzi ha parlato così nella cattedrale di Vicenza venerdì 28 maggio al Festival Biblico, dove ha tenuto una |Lectio magistralis dal titolo Dall’ospitalità delle Scritture ad una società ospitale.Un calarsi nella Parola per trovare le parole e le riflessioni giuste per un tempo come il nostro così pieno di paure. «È a questo livello più profondo e più personale e personalizzante che ci rimandano le Scritture e così esse diventano, anche per noi oggi, un richiamo originale e forte alla “norma fondamentale”, quella che sta alla base di tutti i comportamenti di una ospitalità che vuole e deve essere coerente con la persona umana».Tettamanzi ripropone alla riflessione e al dibattito pubblico il cuore e il pilastro della questione, da cui necessariamente non si po’ deviare: al centro c’è la persona come tale e il rispetto della sua dignità, al di là del colore della sua pelle, della cultura, ma anche della propria condizione sociale, dall’essere o meno considerato marginale dalla società. Precisa il Cardinale: «Ora possiamo dire, in termini estremamente sintetici, che questa norma riposa: sulla dignità personale di tutti gli esseri umani e di ciascuno di essi, dappertutto e sempre; sulla relazionalità come Dna strutturale-dinamico-finalistico della persona, quale “io” aperto al “tu” nel duplice senso dell’essere “con” e “per” l’altro; sulla moralità secondo le esigenze della giustizia e della carità».Tutto questo però richiede coerenza e profondità di valori vissuti, che rifugga da facili sentimentalismi, che durano lo spazio di un’emozione. Un ruolo importante lo svolgono anche i media, non sempre in positivo. «C’è il rischio di un fraintendimento nel nostro modo di impegnarci per gli altri – sottolinea l’Arcivescovo -. Guardiamo, ad esempio, a certi eventi lontani, su cui siamo informati dai mass media. Al momento siamo molto coinvolti e commossi per quanto stiamo ascoltando o vedendo e siamo disposti ad aiutare, anche concretamente, le sfortunate vittime di una qualche catastrofe. Ma la notizia diventa presto una semplice “informazione” e velocemente invecchia. Il punto allora è quello di mantenere “caldo” il coinvolgimento emotivo insieme al coraggio di decisioni morali capaci di trasformare la nostra vita nel quotidiano. La tentazione cui siamo oggi esposti è quella di distanziare il prossimo rendendolo “lontano” e di avvicinare il lontano rendendolo “prossimo” solo emotivamente, fintanto che egli non diventi davvero un insopportabile “vicino”». È dunque un’illusione nella società globalizzata pensare di tenere lo “straniero” fuori dalle “mura”. Perché a fenomeni epocali vanno date risposte serie di accoglienza e integrazione. «I flussi di stranieri che bussano alle porte delle società occidentali sono mossi soprattutto dalla povertà e dalla persecuzione politica. La loro condizione di debolezza mette noi in posizione di maggiore forza ed efficacia qualora decidessimo di impegnarci tutti – e tutti insieme – a governare responsabilmente il fenomeno. Spesso invece l’uso strumentale del problema, le politiche di corto respiro, la fatica a considerare questa realtà a livello globale impediscono un serio e risolutivo intervento». E il Cardinale getta lo sguardo avanti, a un futuro non così lontano e si domanda: «Cosa capiterà – provo ad immaginare – quando non saranno più gli immigrati poveri a bussare alle nostre porte? Cosa capiterà quando saranno tra noi molti immigrati in condizione di “forza” (lavorativa, economica, culturale, scientifica…) e ci chiederanno di confrontarci con loro? Corriamo il rischio di smarrirci nella nostra identità se – mossi dalla paura e chiusi in noi stessi nell’illusoria convinzione di essere protetti dalle barriere economiche, sociali e religiose che a fatica ci stiamo costruendo – non ci educhiamo al confronto, al dialogo, alla relazione profonda con lo “straniero”». Ecco allora la via che l’Arcivescovo indica: «È tempo di vivere sempre più le nostre radici cristiane: quando sono autenticamente nutrite dalla sapienza biblica ci sospingono a vedere l’altro come risorsa e dono e ci rendono capaci di affrontare anche i non piccoli problemi che ogni confronto porta con sé». – – Il testo integrale (https://www.chiesadimilano.it/or/ADMI/pagine/00_PORTALE/2010/2010_05_28_Festival%20Biblico.pdf) – Volontari per i carcerati – I malati psichici ci inquietano

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