La Camera dei Deputati ha approvato la legge con una maggioranza trasversale

di Marco DOLDI

Fine vita

La Camera ha approvato martedì 12 luglio con una maggioranza trasversale il disegno di legge sul fine vita. Poi il testo tornerà al Senato per l’ultimo “sì”. E’ una conquista degna della migliore tradizione occidentale e per questo va apprezzata e difesa. L’articolo iniziale afferma che la vita è inviolabile ed indisponibile anche nella fase terminale dell’esistenza. E’ la riaffermazione di un principio su cui si fonda la nostra civiltà europea e la stessa tradizione medica di origine ipocratica. Con questo principio alcuni avrebbero voluto “giocare”, stabilendo distinzioni ed eccezioni in nome della libertà personale. La libertà in questo senso sarebbe svuotata dal suo significato relazionale con il bene, con se stessi e con l’altro per essere ridotta ad autonomia assoluta. E, invece, prima della libertà c’è la vita, bene inviolabile ed indisponibile per gli altri, ma anche per se stessi. Se fosse crollato questo principio, le crepe del cedimento avrebbero immediatamente minato tutto l’edificio sul quale si fondano secoli di cultura. Si sarebbe tornati indietro, molto indietro all’epoca in cui la vita dei deboli e degli indifesi era in mano dei forti. Si sarebbe tradito quel caposaldo del giuramento ipocratico, che secoli prima del cristianesimo, proibiva al medico di somministrare medicamenti letali. La legge appena approvata nel suo linguaggio semplice ed elementare stabilisce il giusto ordine delle cose: la vita precede la libertà; essa è il bene ricevuto per eccellenza e quindi indisponibile. Invertire l’ordine sarebbe stata razionalmente una follia e contro l’evidenza: nessuno si dà la vita e, pertanto, nessuno la può togliere a se stesso o agli altri. La vita è condizione stessa della libertà e del suo esercizio.
In un’epoca in cui si confondono anche le cose elementari, la legge ha fatto il suo dovere: ha stabilito un ordine e una logica. Questo principio fondamentale è consegnato con la stessa convinzione al paziente e al medico, affinché nella logica dell’alleanza terapeutica individuino le strategie operative più opportune. Nessuno deve prevalere sull’altro. Se da tempo è, giustamente, tramontato l’atteggiamento paternalista, per cui il medico da solo saprebbe e farebbe quello che è bene per il suo paziente, neanche si può pensare che il paziente sia una sorta di cliente da accontentare ad ogni costo. Il paziente responsabilmente si confronta con la propria fine, indicando quali trattamenti sanitari o assistenziali ritiene meglio ricevere. Lo fa attraverso la Dichiarazione anticipata di trattamento (Dat). Anche le parole hanno un loro significato, per questo si é rifiutato di usare l’espressione “testamento biologico”. E si capisce perché. Parlare di testamento significherebbe ritenere che quelle che esprime il paziente siano volontà vincolanti, che potrebbero persino, giungere a minare il principio di indisponibilità della vita umana. Si è scelto, invece, il termine “dichiarazione” per indicare un’espressione di orientamenti di desideri, dei quali il medico tiene conto se riscontra che la loro attuazione è conforme al principio centrale e al bene del paziente. Su questo punto la legge è anche molto realista: la Dichiarazione anticipata di trattamento non è obbligatoria e ha validità per cinque anni; perché nel corso del tempo tante cose possono cambiare evolvendosi diversamente da come erano state previste. Se il paziente è incapace ormai di intendere e di volere può intervenire in sua vece un fiduciario, cioè una persona precedentemente incaricata ad essere suo interlocutore presso l’equipe medica.
La logica stringente della legge appare negli altri articoli che fanno divieto a chiunque di chiedere e di attuare l’accanimento terapeutico e l’eutanasia, anche solo come suicidio assistito. Chi temeva, dunque, che la legge volesse attuare un vitalismo a tutti i costi, che condannasse i pazienti a restare attaccati alle macchine in modo disumano può stare giustamente tranquillo.
Quelle che vengono genericamente chiamate “macchine” sono gli strumenti avanzati a disposizione della pratica medica per mantenere in vita una persona rispettandone la dignità. Quando, però, la prospettiva è quella di una vita disumana, la persona deve essere lasciata morire in modo umano. Un conto è lasciare morire e un conto è fare morire, sospendendo trattamenti di sostegno adesso obbligatori per legge.
Infatti, la legge assicura ai pazienti più deboli, quelli incapaci di intendere e di volere, l’alimentazione e l’idratazione. Si è detto che l’espressione “testamento biologico” è stata rifiutata per i motivi spiegati. Alla fine, emerge che quel “biologico” è profondamente inadeguato alla persona, che anche nello stato di fine vita, è qualcosa di più di un insieme di organi o di funzioni in parte supportate. Il morire, cioè, non è un mero fatto biologico, ma l’ultima espressione dell’essere persona, dotata di anima e di corpo. Nella fragilità che avanza al punto da impadronirsi di tutto, emerge, allo stesso tempo, sempre più lucida la coscienza che la persona appartiene all’eterno. La nuova legge ha saputo esprimere, anche se in parte, tanto della ricchezza del pensiero occidentale e, per questo, l’Italia ha indicato come conseguire nelle delicate questioni del fine vita l’autentico progresso.  

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