Intervista all'economista bolognese Stefano Zamagni: per uscire dalla crisi occorrono più servizi alla persona che consumi
Redazione
Per uscire definitivamente dalla crisi economica e finanziaria, affrontando e risolvendo i suoi nodi strutturali, ci vuole “creatività”. O meglio, serve una vera e propria “rivoluzione copernicana” che parta dalla rivalutazione del “genio italico” in termini di philokalia, cioè di amore per il bello. In che modo? Incentivando non i consumi, ma i servizi alla persona. Questa, in sintesi, la ricetta per il 2010 di Stefano Zamagni, docente di Economia politica all’Università di Bologna.
All’inizio di questo nuovo anno come definirebbe lo “stato” della crisi?
Quella che stiamo attraversando è una crisi di una certa portata che ha tre dimensioni: finanziaria, reale e produttiva, occupazionale. La prima è superata, non ci sono più rischi di fallimento, anche perché i governi nazionali hanno stanziato valanghe di denaro per salvare il sistema finanziario. Per quanto riguarda la crisi reale, legata alla produzione, il peggio è ormai alle spalle, e c’è da presumere che quest’anno le imprese tornino a produrre. Quella che invece non è superata, e anzi è peggiorata, è la dimensione occupazionale: quest’anno, infatti, si prevede che la disoccupazione aumenterà di due o tre punti percentuali. I motivi sono da ricercare nel fatto che quella attuale è una jobless growth, una crescita senza occupazione, caratteristica di questa fase storica e frutto dell’avvento delle nuove tecnologie. Ciò significa che le imprese torneranno a produrre, ma senza creare posti di lavoro, determinando così un peggioramento della dimensione occupazionale.
Se ne esce incentivando i consumi, come propongono alcuni economisti?
Proporre l’aumento dei consumi come via di uscita definitiva dalla crisi è privo di senso, ed è il tipico atteggiamento di chi vuol rimanere alla superficie, senza mai andare alle cause strutturali. Aumentare i consumi, infatti, significa far aumentare i profitti, ma non l’occupazione, visto che le nuove tecnologie si sostituiscono al lavoro. Se il fine è l’aumento dei profitti, allora è vero che aumentare i consumi fa aumentare i profitti delle imprese. Se il fine è invece l’aumento del lavoro, l’aumento dei consumi peggiorerà l’occupazione. Ecco perché, se vogliamo veramente mettere al centro il lavoro – inteso come lo intende il Papa, e cioè non solo come mera produzione, ma come fattore che forma il carattere degli uomini e definisce la loro identità – dobbiamo rimettere le cose in ordine, incentivando non i consumi, ma i servizi alla persona.
Cosa comporta, per lo Stato, questa sorta di “rivoluzione copernicana”?
Il livello dei consumi non deve diminuire, deve aumentare, ma bisogna cambiarne la composizione: meno consumo di merci, più consumo di beni relazionali. In Italia non si producono abbastanza servizi alla persona: in maniera irresponsabile, continuiamo a mettere in mano ai giovani tre o quattro telefonini, convinti che questo sia il modo per star meglio. I servizi alla persona – che consistono non solo nella cura sanitaria, ma anche nella cura educativa, culturale, artistica, sportiva, in una parola in tutto ciò che fa crescere la persona – sono invece ad alta densità lavorativa, perché nessuna macchina potrà sostituire il servizio di cura. Sono questi tipi di servizi che lo Stato e gli interventi pubblici dovrebbero incentivare, modificando così alla radice le linee di intervento attuali e lo stesso modello di sviluppo. In questo modo, infatti, si soddisfano i bisogni di cura altrimenti ignorati, si crea lavoro, si favorisce l’emersione del nero.
C’è allora una “via italiana” da identificare e perseguire…
A mio avviso, la vera battaglia da combattere oggi è quella a favore della philokalia, dell’amore per il bello, che deve essere alla portata di tutti, anche degli ultimi. Dobbiamo cambiare il modello della società e renderlo più umano. In Italia, la tradizione della philokalia non ha rivali: nel nostro, come in nessun altro Paese al mondo, la bellezza non è solo un paesaggio naturale, ma anche bellezza artistica, letteraria, pittorica, musicale… Ogni popolo ha la sua identità, e noi dobbiamo sfruttare di più la nostra, invece che andare a rimorchio di altri modelli che ci sono estranei.
Assistenza, sanità, cultura, istruzione: il mondo cattolico può dire di vantare una traduzione consolidata in ognuno di questi campi. Come valorizzarla?
Nei secoli, è stata la Chiesa cattolica la grande committente di queste diverse forme di bellezza. Oggi bisogna prendere sul serio, non a parole, il principio di sussidiarietà. Da quando nel 2001 abbiamo cambiato la nostra Costituzione introducendo gli articoli 118 e 199 sulla sussidiarietà, quest’ultima anziché aumentare è diminuita. Da noi è il volontariato che sussidia l’ente pubblico: bisogna fare il contrario, facendo sì che l’ente pubblico sostenga i soggetti della società civile per realizzare gli obiettivi di cui parlavamo. Per uscire definitivamente dalla crisi economica e finanziaria, affrontando e risolvendo i suoi nodi strutturali, ci vuole “creatività”. O meglio, serve una vera e propria “rivoluzione copernicana” che parta dalla rivalutazione del “genio italico” in termini di philokalia, cioè di amore per il bello. In che modo? Incentivando non i consumi, ma i servizi alla persona. Questa, in sintesi, la ricetta per il 2010 di Stefano Zamagni, docente di Economia politica all’Università di Bologna.All’inizio di questo nuovo anno come definirebbe lo “stato” della crisi? Quella che stiamo attraversando è una crisi di una certa portata che ha tre dimensioni: finanziaria, reale e produttiva, occupazionale. La prima è superata, non ci sono più rischi di fallimento, anche perché i governi nazionali hanno stanziato valanghe di denaro per salvare il sistema finanziario. Per quanto riguarda la crisi reale, legata alla produzione, il peggio è ormai alle spalle, e c’è da presumere che quest’anno le imprese tornino a produrre. Quella che invece non è superata, e anzi è peggiorata, è la dimensione occupazionale: quest’anno, infatti, si prevede che la disoccupazione aumenterà di due o tre punti percentuali. I motivi sono da ricercare nel fatto che quella attuale è una jobless growth, una crescita senza occupazione, caratteristica di questa fase storica e frutto dell’avvento delle nuove tecnologie. Ciò significa che le imprese torneranno a produrre, ma senza creare posti di lavoro, determinando così un peggioramento della dimensione occupazionale.Se ne esce incentivando i consumi, come propongono alcuni economisti?Proporre l’aumento dei consumi come via di uscita definitiva dalla crisi è privo di senso, ed è il tipico atteggiamento di chi vuol rimanere alla superficie, senza mai andare alle cause strutturali. Aumentare i consumi, infatti, significa far aumentare i profitti, ma non l’occupazione, visto che le nuove tecnologie si sostituiscono al lavoro. Se il fine è l’aumento dei profitti, allora è vero che aumentare i consumi fa aumentare i profitti delle imprese. Se il fine è invece l’aumento del lavoro, l’aumento dei consumi peggiorerà l’occupazione. Ecco perché, se vogliamo veramente mettere al centro il lavoro – inteso come lo intende il Papa, e cioè non solo come mera produzione, ma come fattore che forma il carattere degli uomini e definisce la loro identità – dobbiamo rimettere le cose in ordine, incentivando non i consumi, ma i servizi alla persona.Cosa comporta, per lo Stato, questa sorta di “rivoluzione copernicana”?Il livello dei consumi non deve diminuire, deve aumentare, ma bisogna cambiarne la composizione: meno consumo di merci, più consumo di beni relazionali. In Italia non si producono abbastanza servizi alla persona: in maniera irresponsabile, continuiamo a mettere in mano ai giovani tre o quattro telefonini, convinti che questo sia il modo per star meglio. I servizi alla persona – che consistono non solo nella cura sanitaria, ma anche nella cura educativa, culturale, artistica, sportiva, in una parola in tutto ciò che fa crescere la persona – sono invece ad alta densità lavorativa, perché nessuna macchina potrà sostituire il servizio di cura. Sono questi tipi di servizi che lo Stato e gli interventi pubblici dovrebbero incentivare, modificando così alla radice le linee di intervento attuali e lo stesso modello di sviluppo. In questo modo, infatti, si soddisfano i bisogni di cura altrimenti ignorati, si crea lavoro, si favorisce l’emersione del nero.C’è allora una “via italiana” da identificare e perseguire…A mio avviso, la vera battaglia da combattere oggi è quella a favore della philokalia, dell’amore per il bello, che deve essere alla portata di tutti, anche degli ultimi. Dobbiamo cambiare il modello della società e renderlo più umano. In Italia, la tradizione della philokalia non ha rivali: nel nostro, come in nessun altro Paese al mondo, la bellezza non è solo un paesaggio naturale, ma anche bellezza artistica, letteraria, pittorica, musicale… Ogni popolo ha la sua identità, e noi dobbiamo sfruttare di più la nostra, invece che andare a rimorchio di altri modelli che ci sono estranei.Assistenza, sanità, cultura, istruzione: il mondo cattolico può dire di vantare una traduzione consolidata in ognuno di questi campi. Come valorizzarla?Nei secoli, è stata la Chiesa cattolica la grande committente di queste diverse forme di bellezza. Oggi bisogna prendere sul serio, non a parole, il principio di sussidiarietà. Da quando nel 2001 abbiamo cambiato la nostra Costituzione introducendo gli articoli 118 e 199 sulla sussidiarietà, quest’ultima anziché aumentare è diminuita. Da noi è il volontariato che sussidia l’ente pubblico: bisogna fare il contrario, facendo sì che l’ente pubblico sostenga i soggetti della società civile per realizzare gli obiettivi di cui parlavamo.