Riflettendo su un'aggressione virtuale

di Cristiana DOBNER
Redazione

Leggere dentro di sé spesso si rivela un’impresa ardua, tendiamo a nascondere a noi stessi quanto più ci fa soffrire, quanto più lede la nostra self-image e corriamo dietro a chi ci imbonisce con aspetti rassicuranti che poi, in fin dei conti, deludono. I 1700 aderenti di Facebook, che si ritrovano compatti in una vile aggressione virtuale prospettandone una realmente fisica, dovrebbero ascoltarsi e confrontarsi con persone mature che possano illuminarli su quanto di marcio continua a rodere dentro di loro. Se Facebook è uno strumento di comunicazione moderno, agile e dinamico, se Facebook crea una sorta di comunità che si può estendere dovunque in tempo reale, non per questo deve diventare un bacino di violenza o di strumentalizzazione dei deboli. I deboli non sono i Down, lo sono proprio i 1700 aderenti, deboli ed incapaci di guardare con occhio umano chi è diverso, chi non si presenta come loro credono di presentarsi.
Il lato indifeso si dimostra come nella proposta escogitata: nel Down che vogliono colpire e seviziare, colpiscono la loro stessa immagine che, dentro, nel profondo, si aggira delusa ed estremamente povera e inconcludente. I fatti parlano chiaro e su questi esprimo il mio parere, mentre coloro che li hanno provocati o inventati vanno aiutati e sorretti. A mio avviso, un periodo di lavoro e di servizio gratuito, ma faticoso, gomito a gomito con i nostri fratelli e sorelle portatori della sindrome e con i loro educatori, potrebbe essere un ottimo mezzo per tentare il recupero di quella sensibilità che si cela dietro maschere di persecuzione, quella radice che potrebbe ancora fiorire.
Solo chi non ha mai accostato un Down ignora la loro estrema sensibilità, la loro intelligenza nelle relazioni, l’autentica dolcezza che riservano a chi è più debole. Indubbiamente la carenza del nostro modo di esprimerci, detto “normale” da noi normali, loro manca, tuttavia che cosa hanno che a noi manca? Si tratta di una sorta di lingua che noi ignoriamo e, per la semplice ragione che presenta suoni, silenzi e gesti che non siamo in grado d’interpretare, qualifichiamo come negatività.
Posso ricordare le splendide musiche del figlio Down dello scrittore giapponese, premio Nobel per la letteratura, Kenzaburo Oe? Siamo noi che dobbiamo penetrare in un mondo nuovo, diverso appunto ma che non fa paura o incute timore nella misura in cui viviamo in empatia con chiunque abbia in sé il soffio del Creatore.
Una rete come Facebook richiede maturità e giovanile saggezza ma anche una sorta di magna charta che delinei il profilo dell’utente, così da non diventare luogo di spazzatura che contamina. La reazione indignata di molti è segno che il sentire umano è sano, o ancora sano, e che può purificare delle stagnature pericolose, perché così, nell’altro secolo, pur senza Fb, incominciò quanto di cui noi continuiamo a dire “mai più”.
Oscurare è bene, perché il contagio non si propaghi, ma costruire ed educare è meglio: non si potrebbero contattare quegli utenti e discutere con loro apertamente, far conoscere i nostri fratelli e sorelle che sono degli Adami e delle Eve incontaminati? I Down non devono formare una comunità nella comunità, una sorta di rinascita del ghetto (la storia una volta tanto potrebbe essere magistra vitae?), i Down devono essere nostri, come noi siamo loro.
Vorrei scorgere in Facebook tanti utenti Down pronti a donare quell’attenzione che a noi, i sopraffatti da cultura e da concetti, immersi in pseudo ragionamenti, diventa cura di sé, cura dell’altro, per quello che ciascuno è. Di più, per il credente, il Down svela le potenzialità di una vita che già da qui si schiude a parametri non funzionali o efficienti ma si avvicina a quell’atto gratuito della creazione, cui si risponde solo con amore e chi conosce i Down sa che lo trasudano e lo comunicano. Leggere dentro di sé spesso si rivela un’impresa ardua, tendiamo a nascondere a noi stessi quanto più ci fa soffrire, quanto più lede la nostra self-image e corriamo dietro a chi ci imbonisce con aspetti rassicuranti che poi, in fin dei conti, deludono. I 1700 aderenti di Facebook, che si ritrovano compatti in una vile aggressione virtuale prospettandone una realmente fisica, dovrebbero ascoltarsi e confrontarsi con persone mature che possano illuminarli su quanto di marcio continua a rodere dentro di loro. Se Facebook è uno strumento di comunicazione moderno, agile e dinamico, se Facebook crea una sorta di comunità che si può estendere dovunque in tempo reale, non per questo deve diventare un bacino di violenza o di strumentalizzazione dei deboli. I deboli non sono i Down, lo sono proprio i 1700 aderenti, deboli ed incapaci di guardare con occhio umano chi è diverso, chi non si presenta come loro credono di presentarsi.Il lato indifeso si dimostra come nella proposta escogitata: nel Down che vogliono colpire e seviziare, colpiscono la loro stessa immagine che, dentro, nel profondo, si aggira delusa ed estremamente povera e inconcludente. I fatti parlano chiaro e su questi esprimo il mio parere, mentre coloro che li hanno provocati o inventati vanno aiutati e sorretti. A mio avviso, un periodo di lavoro e di servizio gratuito, ma faticoso, gomito a gomito con i nostri fratelli e sorelle portatori della sindrome e con i loro educatori, potrebbe essere un ottimo mezzo per tentare il recupero di quella sensibilità che si cela dietro maschere di persecuzione, quella radice che potrebbe ancora fiorire.Solo chi non ha mai accostato un Down ignora la loro estrema sensibilità, la loro intelligenza nelle relazioni, l’autentica dolcezza che riservano a chi è più debole. Indubbiamente la carenza del nostro modo di esprimerci, detto “normale” da noi normali, loro manca, tuttavia che cosa hanno che a noi manca? Si tratta di una sorta di lingua che noi ignoriamo e, per la semplice ragione che presenta suoni, silenzi e gesti che non siamo in grado d’interpretare, qualifichiamo come negatività.Posso ricordare le splendide musiche del figlio Down dello scrittore giapponese, premio Nobel per la letteratura, Kenzaburo Oe? Siamo noi che dobbiamo penetrare in un mondo nuovo, diverso appunto ma che non fa paura o incute timore nella misura in cui viviamo in empatia con chiunque abbia in sé il soffio del Creatore.Una rete come Facebook richiede maturità e giovanile saggezza ma anche una sorta di magna charta che delinei il profilo dell’utente, così da non diventare luogo di spazzatura che contamina. La reazione indignata di molti è segno che il sentire umano è sano, o ancora sano, e che può purificare delle stagnature pericolose, perché così, nell’altro secolo, pur senza Fb, incominciò quanto di cui noi continuiamo a dire “mai più”.Oscurare è bene, perché il contagio non si propaghi, ma costruire ed educare è meglio: non si potrebbero contattare quegli utenti e discutere con loro apertamente, far conoscere i nostri fratelli e sorelle che sono degli Adami e delle Eve incontaminati? I Down non devono formare una comunità nella comunità, una sorta di rinascita del ghetto (la storia una volta tanto potrebbe essere magistra vitae?), i Down devono essere nostri, come noi siamo loro.Vorrei scorgere in Facebook tanti utenti Down pronti a donare quell’attenzione che a noi, i sopraffatti da cultura e da concetti, immersi in pseudo ragionamenti, diventa cura di sé, cura dell’altro, per quello che ciascuno è. Di più, per il credente, il Down svela le potenzialità di una vita che già da qui si schiude a parametri non funzionali o efficienti ma si avvicina a quell’atto gratuito della creazione, cui si risponde solo con amore e chi conosce i Down sa che lo trasudano e lo comunicano.

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