Don Giuliano Lonati, unico "fidei donum" ambrosiano in Turchia, racconta il dolore per la tragica morte di mons. Padovese, chiede verità; sulla vicenda e parla delle difficoltà; e delle speranze di un incontro con i musulmani

di Pino NARDI
Redazione

Una ferita apertissima, che provoca ancora molto dolore. La tragica morte di monsignor Luigi Padovese, il presidente della Conferenza episcopale turca ucciso lo scorso giugno, continua a sollecitare le coscienze dei credenti. E necessita di una parola di verità su quanto è successo. Lo chiede don Giuliano Lonati, unico fidei donum ambrosiano, da quasi tre anni a Samsun in Turchia.

Dopo la tragica morte di monsignor Padovese, com’è il clima che state vivendo in Turchia?
Io vivo in una zona abbastanza isolata nel Nord-est, a 400 chilometri dalla Georgia, sul Mar Nero. Qui tutto è tranquillo, tutto tace e viviamo nella speranza che esca qualche parola di verità da parte dei magistrati che sono incaricati di far luce sulla vicenda. Per il momento non si sa niente, è un silenzio che urla. Speriamo tanto che si faccia luce su questa tragedia che si ripete, come ha detto anche l’arcivescovo di Smirne, monsignor Ruggero Franceschini: don Santoro, in precedenza i tre cristiani di Malachia, poi Padovese.

Cristiani piccolo gregge: come possono continuare a testimoniare la propria fede in quelle terre?
A mio modestissimo parere, stando alle regole, cioè con la massima discrezione, finezza, rispetto, considerazione, attenzione. Senza nascondere che non è proprio un bel vivere. Non c’è la libertà religiosa, è inutile negarcelo: bisogna stare in chiesa ed essere accoglienti. A me dispiace molto un fatto: che la morte di Padovese si sia appiattita eccessivamente sulla cronaca, a volte anche sul pettegolezzo. La morte di Padovese non è stata una morte qualunque, ma è stata decapitata la Chiesa della Turchia. I cristiani e la Chiesa vivono tuttora un dolore, che domanda anche l’aiuto a conservare l’apertura alla riconciliazione e quindi al perdono. Ma domanda anche il rispetto della natura di questo dolore, di una madre che invoca la verità dei fatti. Questo non è venuto fuori ben chiaro, però mi sento di dirlo, perché sono un cristiano e un prete parte di questa Chiesa che vive un dolore terribile.

Monsignor Padovese era un grande uomo del dialogo pur nella difficoltà della situazione. La sua morte mette in discussione questo percorso di incontro e di dialogo con i musulmani?
Non credo. Certo, per essere tale il dialogo ha dentro elementi di verità. Probabilmente qualcuno ha cercato di percorrere piste in questa direzione. forse ha toccato punti un po’ delicati in qualche intervento, ma che comunque rispondono alla verità. Più che l’uomo del dialogo, mi pare che Padovese sia da qualificare anche come uomo della verità. Questo non significa voler offendere nessuno. Ma se dobbiamo dialogare bisogna rimuovere le precomprensioni, le distorte conoscenze che i musulmani hanno nei nostri confronti e che noi abbiamo verso di loro, che comunque tutti abbiamo nei confronti della storia. Per rimuoverle bisogna sapere in cosa consistono. Probabilmente lui è andato a toccare qualche aspetto in quel senso. Padovese come don Andrea sono persone che hanno votato la vita per cercare piste, strade, modi nuovi per dire il Vangelo di sempre dentro un dialogo che di per sé è difficile, ma non impossibile.

Il Sinodo delle Chiese del Medio Oriente, che si è appena concluso a Roma, che contributo può offrire?
Il Sinodo ha acceso tanta speranza nelle Chiese di Turchia e medio-orientali. Tuttavia poi è disarmante ascoltare le notizie che arrivano da Baghdad: siamo tutti esterrefatti per quello che è successo lì, perché è tutta una reazione a catena.

Da quasi tre anni è in Turchia come fidei donum. Quale bilancio può tracciare della sua missione?
Ho capito che chi deve lavorare più di tutti, per creare le condizioni perché il dialogo possa esserci, sono proprio i cristiani: devono spiegare la loro identità ai musulmani, che conoscono il cristiano e il cristianesimo in un modo molto distorto. Chi parla a loro sono gli imam. I cristiani devono rivendicare invece questa loro capacità di spiegare la loro identità, come sollecita anche san Pietro: «Siate sempre pronti a dare ragione della speranza che è in voi». Quindi la nostra presenza qui attraverso la vita e la parola deve essere una chiara “spiegazione” dell’identità cristiana, della Chiesa e del Vangelo. Fintanto che non si fa questo sarà difficile: parleremo di dialogo, ma non si potrà fare, perché le identità non si conoscono. E siccome i musulmani non chiedono, perché presumono di saperlo, noi dobbiamo comunque dare ragione della nostra identità a loro, perché si rendano conto che in realtà non ci conoscono. Quindi secondo me il dialogo non è possibile allo stato attuale, sarà possibile se si creeranno le condizioni. Poi i rapporti di buon vicinato, la cordialità, il sorriso sono tutti aspetti che vanno bene, anche se favoriscono sono condizioni marginali. Invece quando si arriva al dialogo ci vogliono condizioni più consistenti.

Il cardinale Tettamanzi ha detto che «non vi lasceremo soli». Cosa può fare la Diocesi di Milano per aiutarvi?
Io sono l’unico fidei donumdi Milano, però sento la mia Chiesa vicina, mi sento “espansione” della missionarietà della nostra Chiesa. Quindi mi sento abbracciato dal mio presbiterio del quale io faccio parte e di tutta la Diocesi. Il cardinale Tettamanzi non ci ha mai lasciati soli. Cosa può fare? Per il momento restiamo qui a vedere come deve precisarsi la nostra presenza in un Paese musulmano e concordemente nella Chiesa locale che da secoli vive qui. Noi entriamo in punta di piedi cercando di condividere gioie e dolori e la ricerca di nuovi modi per dire il Vangelo di sempre anche ai musulmani, perché la tensione missionaria è questa.

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