Di fronte a una crisi sempre più grave
di Riccardo MORO
Redazione
La bomba greca sta esplodendo dopo una lunga e irresponsabile indifferenza. Da due anni la Grecia vive un’intensa crisi politica e sociale. Nel dicembre 2008 manifestazioni di piazza in tutto il Paese provocarono un duro confronto tra governo e Paese reale. L’impatto della crisi finanziaria era appena iniziato e il governo non mostrava né consapevolezza né capacità d’intervento. Dopo dieci mesi il partito di centrodestra al governo venne pesantemente sconfitto nelle elezioni politiche vinte dal Pasok, i socialdemocratici di George Papandreou, figlio del fondatore del partito e nipote del capo del primo governo greco dopo l’occupazione nazista.
Non basta però appartenere ad una dinastia per riuscire a risolvere le difficoltà della Grecia contemporanea. Sul piano politico la storia del Paese è una delle più sofferte d’Europa. Membri di governi di ogni colore sono stati incriminati per corruzione, in un Paese in cui la pervasività economica dello Stato è tra le più alte in Europa. Il governo greco, proprio col Pasok a guidarlo, è stato addirittura accusato, non senza fondamento, di avere falsificato alcuni dati macroeconomici ufficiali per entrare nel sistema dell’Euro, prima del 2002.
Oggi il Paese subisce il peso della crisi finanziaria nata oltreoceano, in modo non dissimile da ciò che è avvenuto in molte altre nazioni. La crisi finanziaria ha ridotto consumi e Pil, con una conseguente contrazione delle entrate dello Stato, che dipendono dai redditi e dal volume di affari delle imprese e dei cittadini. Alle minori entrate fiscali è però corrisposto un aumento della domanda di interventi pubblici a sostegno dei redditi e dell’occupazione.
Per pagare queste nuove spese, visto che si riducono le entrate, lo Stato potrebbe aumentare le tasse, ma il Paese è già in crisi e non riuscirebbe a sostenerle. Dunque, si ricorre all’emissione di titoli, finanziandosi col debito. Solo che le finanze pubbliche greche non sono robuste e per attirare sottoscrittori il governo deve promettere tassi d’interesse più alti di quanto fanno gli altri Paesi europei. Inoltre, aumentando il proprio debito contravviene ai parametri europei.
Di fronte a questa situazione il governo ha varato un programma di austerity per contenere la spesa pubblica anche col blocco dei salari degli statali e ha chiesto all’Unione europea non denaro ma disponibilità politica, cioè di non rispettare i parametri europei sull’indebitamento.
La risposta europea è stata imbarazzante. Passano sei mesi di parole senza decisioni. Intanto il governo greco è costretto alle emissioni, s’indebita e la spesa aumenta, perché i mercati, cavalcando la sfiducia e l’incertezza europea, speculano sulla situazione: accettano di acquistare i titoli greci solo a tassi d’interesse sempre più alti. Dopo sei mesi la situazione è ingestibile. La Grecia, che non era sull’orlo della bancarotta, oggi paga tassi d’interesse almeno doppi rispetto all’inizio della crisi e non ce la fa più. Ma ciò che è più grave è che abbiamo consentito sei mesi di pubblicità negativa contro l’euro e l’Europa, dando voce a battute come quelle sull’espulsione della Grecia dall’euro, che non hanno nessuna consistenza reale, ma minano la fiducia.
Oggi l’Euro è sceso ai valori di fine 2004 e la fiducia dei cittadini nell’Europa si sfalda sotto i colpi di un egoismo nazionale pressappochista. Questa è la conseguenza più grave di tale situazione e ne sono responsabili i leader europei con la loro inazione. Si poteva agire in modo diverso, creando immediatamente un fondo di garanzia che assicurasse la disponibilità dei Paesi europei ad acquistare titoli greci ad un interesse prestabilito. Il governo greco li avrebbe emessi in caso di necessità accettando una commissione di controllo europea per la trasparenza della spesa (e dei dati). Significava mostrare autorevolezza politica usando strumenti di mercato credibili e non palliativi o inutili misure straordinarie.
Il segnale avrebbe dato credibilità (l’Europa crede nei suoi membri, la Grecia ha la fiducia dell’Europa) e spuntato le armi degli speculatori. La Grecia avrebbe potuto finanziarsi sul mercato a tassi d’interesse sostenibili perché i suoi titoli sarebbero stati comprati dai risparmiatori normali. I tentennamenti invece hanno giustificato gli speculatori e oggi intervenire costa di più. Non solo. Gli speculatori si stanno guardando in giro. Le prossime vittime potrebbero essere Portogallo e Irlanda, e dopo di loro Spagna e Italia.
Non c’è alternativa a un intervento, troppo alti sarebbero i costi sociali in Grecia e le ricadute in Europa. Farlo così tardi rende un servizio perverso agli speculatori, eliminando il rischio del loro investimento. Nasce un dubbio triste. Gli attuali leader europei giocano apposta al rinvio per condividere i guadagni degli speculatori? Oppure, a differenza delle generazioni che li hanno preceduti, mancano solo del senso dello Stato (che per essere chiari è l’Unione europea) e di statura? La bomba greca sta esplodendo dopo una lunga e irresponsabile indifferenza. Da due anni la Grecia vive un’intensa crisi politica e sociale. Nel dicembre 2008 manifestazioni di piazza in tutto il Paese provocarono un duro confronto tra governo e Paese reale. L’impatto della crisi finanziaria era appena iniziato e il governo non mostrava né consapevolezza né capacità d’intervento. Dopo dieci mesi il partito di centrodestra al governo venne pesantemente sconfitto nelle elezioni politiche vinte dal Pasok, i socialdemocratici di George Papandreou, figlio del fondatore del partito e nipote del capo del primo governo greco dopo l’occupazione nazista.Non basta però appartenere ad una dinastia per riuscire a risolvere le difficoltà della Grecia contemporanea. Sul piano politico la storia del Paese è una delle più sofferte d’Europa. Membri di governi di ogni colore sono stati incriminati per corruzione, in un Paese in cui la pervasività economica dello Stato è tra le più alte in Europa. Il governo greco, proprio col Pasok a guidarlo, è stato addirittura accusato, non senza fondamento, di avere falsificato alcuni dati macroeconomici ufficiali per entrare nel sistema dell’Euro, prima del 2002.Oggi il Paese subisce il peso della crisi finanziaria nata oltreoceano, in modo non dissimile da ciò che è avvenuto in molte altre nazioni. La crisi finanziaria ha ridotto consumi e Pil, con una conseguente contrazione delle entrate dello Stato, che dipendono dai redditi e dal volume di affari delle imprese e dei cittadini. Alle minori entrate fiscali è però corrisposto un aumento della domanda di interventi pubblici a sostegno dei redditi e dell’occupazione.Per pagare queste nuove spese, visto che si riducono le entrate, lo Stato potrebbe aumentare le tasse, ma il Paese è già in crisi e non riuscirebbe a sostenerle. Dunque, si ricorre all’emissione di titoli, finanziandosi col debito. Solo che le finanze pubbliche greche non sono robuste e per attirare sottoscrittori il governo deve promettere tassi d’interesse più alti di quanto fanno gli altri Paesi europei. Inoltre, aumentando il proprio debito contravviene ai parametri europei.Di fronte a questa situazione il governo ha varato un programma di austerity per contenere la spesa pubblica anche col blocco dei salari degli statali e ha chiesto all’Unione europea non denaro ma disponibilità politica, cioè di non rispettare i parametri europei sull’indebitamento.La risposta europea è stata imbarazzante. Passano sei mesi di parole senza decisioni. Intanto il governo greco è costretto alle emissioni, s’indebita e la spesa aumenta, perché i mercati, cavalcando la sfiducia e l’incertezza europea, speculano sulla situazione: accettano di acquistare i titoli greci solo a tassi d’interesse sempre più alti. Dopo sei mesi la situazione è ingestibile. La Grecia, che non era sull’orlo della bancarotta, oggi paga tassi d’interesse almeno doppi rispetto all’inizio della crisi e non ce la fa più. Ma ciò che è più grave è che abbiamo consentito sei mesi di pubblicità negativa contro l’euro e l’Europa, dando voce a battute come quelle sull’espulsione della Grecia dall’euro, che non hanno nessuna consistenza reale, ma minano la fiducia.Oggi l’Euro è sceso ai valori di fine 2004 e la fiducia dei cittadini nell’Europa si sfalda sotto i colpi di un egoismo nazionale pressappochista. Questa è la conseguenza più grave di tale situazione e ne sono responsabili i leader europei con la loro inazione. Si poteva agire in modo diverso, creando immediatamente un fondo di garanzia che assicurasse la disponibilità dei Paesi europei ad acquistare titoli greci ad un interesse prestabilito. Il governo greco li avrebbe emessi in caso di necessità accettando una commissione di controllo europea per la trasparenza della spesa (e dei dati). Significava mostrare autorevolezza politica usando strumenti di mercato credibili e non palliativi o inutili misure straordinarie.Il segnale avrebbe dato credibilità (l’Europa crede nei suoi membri, la Grecia ha la fiducia dell’Europa) e spuntato le armi degli speculatori. La Grecia avrebbe potuto finanziarsi sul mercato a tassi d’interesse sostenibili perché i suoi titoli sarebbero stati comprati dai risparmiatori normali. I tentennamenti invece hanno giustificato gli speculatori e oggi intervenire costa di più. Non solo. Gli speculatori si stanno guardando in giro. Le prossime vittime potrebbero essere Portogallo e Irlanda, e dopo di loro Spagna e Italia.Non c’è alternativa a un intervento, troppo alti sarebbero i costi sociali in Grecia e le ricadute in Europa. Farlo così tardi rende un servizio perverso agli speculatori, eliminando il rischio del loro investimento. Nasce un dubbio triste. Gli attuali leader europei giocano apposta al rinvio per condividere i guadagni degli speculatori? Oppure, a differenza delle generazioni che li hanno preceduti, mancano solo del senso dello Stato (che per essere chiari è l’Unione europea) e di statura?