Nelle prigioni la nostra torna ad essere la lingua più parlata. Anche in questo caso, emerge un Paese spaccato a metà: a Sud l'attrazione della criminalità organizzata si fa più forte. Buon esito della messa alla prova. Ma mancano le risorse...
di Francesco CHIAVARINI
Redazione
Indovinello: quale lingua parlano i ragazzini delle carceri per minori del nostro Paese? Il romeno imparato tra le catapecchie dei campi rom? Lo slang latinos delle bande sudamericane che terrorizzano i suburbi urbani? L’indecifrabile cinese delle piccole e grandi Chinatown cresciute tra capannoni e sottoscala?
Sbagliato. Parlano, per lo più, l’italiano. Spesso con un accento del Sud. Ma non solo. Nell’Italia ossessionata dall’invasione degli extracomunitari, dal Dipartimento di giustizia minorile giunge una notizia che fa il contropelo al senso comune: negli istituti per minori gli italiani hanno superato gli stranieri, per la seconda volta dopo 15 anni. E benché i numeri dicano anche che nell’ultimo decennio la delinquenza minorile non è aumentata, anzi sarebbe «in lento e costante calo» (come hanno notato anche i ricercatori dell’Eurispes nell’ultimo rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dall’adolescenza), il sorpasso degli italiani e, fra loro, la presenza importante dei ragazzi del Sud è un dato allarmante, perché ci restituisce l’immagine di un Paese incapace di chiudere i conti con alcuni suoi storici mali.
Indovinello: quale lingua parlano i ragazzini delle carceri per minori del nostro Paese? Il romeno imparato tra le catapecchie dei campi rom? Lo slang latinos delle bande sudamericane che terrorizzano i suburbi urbani? L’indecifrabile cinese delle piccole e grandi Chinatown cresciute tra capannoni e sottoscala?Sbagliato. Parlano, per lo più, l’italiano. Spesso con un accento del Sud. Ma non solo. Nell’Italia ossessionata dall’invasione degli extracomunitari, dal Dipartimento di giustizia minorile giunge una notizia che fa il contropelo al senso comune: negli istituti per minori gli italiani hanno superato gli stranieri, per la seconda volta dopo 15 anni. E benché i numeri dicano anche che nell’ultimo decennio la delinquenza minorile non è aumentata, anzi sarebbe «in lento e costante calo» (come hanno notato anche i ricercatori dell’Eurispes nell’ultimo rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dall’adolescenza), il sorpasso degli italiani e, fra loro, la presenza importante dei ragazzi del Sud è un dato allarmante, perché ci restituisce l’immagine di un Paese incapace di chiudere i conti con alcuni suoi storici mali. Il sorpasso Sull’onda delle grandi migrazioni degli anni Novanta, gli istituti penitenziari per minori, come quelli per adulti, si erano trasformati in un universo multietnico. In continua ascesa, nel 1997 gli stranieri erano diventati la maggioranza, toccando la quota record del 59 % degli arresti.La tendenza si è mantenuta costante fino al 2007. Poi, due anni fa, il ribaltone. Secondo le statistiche del Ministero, nel 2008 nei Cpa (i Centri di prima accoglienza, dove i minori arresati vengono trattenuti in attesa della convalida del fermo) sono entrati 2.908 ragazzini, dei quali il 53% italiani. Sembrava un mutamento passeggero, ancora poco decifrabile. E invece gli ultimissimi aggiornamenti non solo confermano il trend, ma addirittura indicano un’accentuazione.Nei primi sei mesi del 2009, su 10 minorenni fermati 6 hanno nome e cognome italiani. Persino a Milano, che dopo i fatti di via Padova vorrebbe quartieri a numero chiuso per extracomunitari, è la presenza degli italiani a crescere nello storico istituto Beccaria: erano il 16,8% nel 2007, sono quasi raddoppiati nella prima metà dello scorso anno.«Il fenomeno, per quanto recente, è ormai stabilizzato e va preso in seria considerazione», sostiene Monia Giovannetti, sociologa dell’Università di Bologna e autrice con Dario Melossi di «I nuovi sciuscià» (Donzelli editore) e più recentemente di «L’accoglienza incompiuta» (Il Mulino), due saggi dedicati alla condizione dei figli degli immigrati in Italia. La studiosa avanza due ipotesi: «L’inversione di tendenza, avvenuta tra il 2007 e il 2008, può dipendere certamente anche dal superamento dallo strabismo del sistema giudiziario minorile, che ha finora considerato il carcere la soluzione privilegiata per i minori stranieri, riservando invece l’affidamento in comunità in modo prevalente agli italiani. Ma c’è anche una spiegazione più interessante e suggestiva».Per rendersene conto basta guardare i numeri di uno dei gruppi etnici più problematico, quello rumeno. «Tra 2007 e il 2008, in coincidenza con l’ingresso dalla Romania in Europa, i minori rumeni nei Cpa si sono dimezzati, facendo crollare la quota degli stranieri. La maggiore integrazione è coincisa con un minore tasso di devianza», fa notare la sociologa. L’alibi dello straniero Passata, insomma, l’emergenza rumena, sarebbero riaffiorati nel mondo giovanile vecchi e mai risolti problemi. Secondo don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile di Milano, «questi dati non ci consentono più alibi: dicono che il nemico non è alle porte, ma ce lo stiamo allevando in casa».Tra i ragazzi del Beccaria c’è, è vero, il figlio dell’immigrato maghrebino, sudamericano o esteuropeo, che non riesce a inserirsi nel quartiere; c’è, certamente, il ragazzino rom che contribuisce al reddito familiare con qualche furto o borseggio. Ma c’è anche il fratello minore dell’italianissimo rapinatore o spacciatore di Corvetto, Quarto Oggiaro, Giambellino, le periferie milanesi che ospitarono la prima immigrazione dal Sud e dove, dopo tanti anni, pare non sia cambiato nulla. O addirittura chi non ti aspetti: i bulli dei sonnecchiosi paesotti del Varosotto, del Comasco, del Lecchese, la provincia un tempo operosa, tutta casa, chiesa e lavoro: ragazzini capaci di organizzare un colpo al supermercato sottocasa, solo per gioco, per vedere l’effetto che fa.Don Rigoldi è lapidario: «I ragazzi in carcere sono il sintomo della crisi etica e civile di una società che da un lato indica nei soldi, nella fama e nel successo gli unici valori di riferimento, dall’altro in alcune aree del Paese non offre più nulla». Eppure mancano le risorse «Considerate le scarse risorse destinate dallo Stato e le difficoltà finanziarie degli enti locali, è quasi un miracolo il successo della messa alla prova – sostiene Salvatore Inguì, assistente sociale del Dipartimento di giustizia minorile di Palermo, noto in tutta Italia per gli originali progetti di recupero dei ragazzi, svolti nel Trapanese -. Questa misura è una grande opportunità per i minori, a patto che la proposta sia avvincente e condivisa con loro. Per questo organizzo gite in barca a vela, immersioni subacquee, lanci con il paracadute. Sono attività solo apparentemente ludiche, in realtà hanno un valore educativo: insegnano il rispetto delle regole e degli altri e mi consentono poi di affrontare il discorso sulla legalità e la solidarietà. Le percentuali di successo sono altissime. Ma se riesco a realizzare tutto questo, è solo grazie a una straordinaria rete di amici e volontari. Fondi pubblici, non ce ne sono…». Inchiesta di “Scarp de’ tenis” – L’articolo qui a fianco e gli altri linkati fanno parte dell’inchiesta Figli nostri dietro le sbarre, pubblicata sul numero di marzo di Scarp de’ tenis, il mensile di strada promosso dalla Caritas Ambrosiana. Si tratta di un’approfondita analisi della situazione nelle carceri minorili, dove i ragazzi italiani sono tornati in maggioranza ad affollare le celle, superando i coetanei stranieri. Si illustrano inoltre storie anche di recupero educativo, nonostante i pochi fondi a disposizione. – Volontari e reclusi, una sera al Beccaria – Un libro e il teatro – Più penitenziari? Non è la soluzione – Valerio, rapinatore non per scelta