A più di cinque anni dall'inizio della guerra, il ritorno alla normalità è ancora lontano. In un incontro promosso a Milano da Pax Christi e da "Popoli", il tragico bilancio del conflitto, la difficile situazione del Paese e la problematica condizione dei cristiani iracheni: ricordato il martirio del vescovo caldeo monsignor Paolo Farraj Rahho


Redazione

12/06/2008

di Silvio MENGOTTO

Giovanni Paolo II aveva profeticamente detto che «la guerra è un’avventura senza ritorno». A cinque anni dall’inizio della guerra in Iraq (19 marzo 2003), il ritorno della normalità e della pace è ancora lontano. Sembra una tragedia che continua in un eterno presente.

Proprio sull’Iraq che non vediamo e sulla Chiesa martire che non conosciamo, martedì 10 giugno si è tenuta una conferenza al Centro San Fedele di Milano, promossa da Pax Christi e dalla rivista dei gesuiti Popoli.

Impressionante il quadro della situazione tracciata da don Renato Sacco, responsabile della solidarietà internazionale di Pax Christi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità documenta che, dal marzo 2003 al giugno 2006, gli iracheni uccisi sono 151 mila, in maggioranza civili; oltre 70 mila le vedove e migliaia gli orfani. Per fonte Unhcr sono più di 4.400.000 gli iracheni sfollati interni e 1.900.000 i profughi nei Paesi confinanti con l’Iraq. Quanto agli Usa, sono 4000 i soldati morti, 6000 i reduci suicidi e 500 i miliardi di dollari spesi sinora.

Il premio Nobel Joseph Stiglitz ha parlato di un Iraq distrutto, diviso e «lontano dalla democrazia, dove le minoranze sono sempre più calpestate». Oggi l’Iraq è il Paese dove Al Qaeda è saldamente presente con la sua ideologia e la sua strategia di morte. Per don Sacco il popolo iracheno vuole dignità e risposte semplici per la vita quotidiana: acqua, elettricità, scuole, lavoro, strade, cibo.

In un filmato realizzato sul viaggio compiuto in febbraio da esponenti di Pax Christi in solidarietà con la Chiesa copta locale, monsignor Sako, arcivescovo di Kirkuk, spiega: «L’Iraq è ricco di risorse, ma dopo tre guerre, dodici anni di embargo e una continua corsa al riarmo è molto povero».

La sua grande preoccupazione, condivisa anche dal vescovo di Baghdad monsignor Warduni e dal clero locale, è il timore che la cristianità irachena scompaia, perché molti cristiani se ne vanno dall’Iraq. Tra l’altro la nuova Costituzione federale potrebbe celare un progetto di spartizione del Paese al quale i cristiani si sono sempre opposti per diversi motivi, non ultimo quello umanitario. In un’intervista pubblicata su Avvenire (31 maggio) per monsignor Sako «i cristiani hanno sempre vissuto fra gli altri iracheni: creare una enclave cristiana è una trappola politica, chi lo propone ha degli interessi».

Proprio un anno fa monsignor Warduni scampò a un gravissimo attentato. Non è stato così per monsignor Paolo Farraj Rahho, vescovo di Mosul, rapito e trovato ucciso il 13 marzo scorso. La scarsa reazione, in un certo senso il silenzio della gerarchia ecclesiastica, ha scoraggiato i vescovi caldei iracheni, che restano però aperti alla speranza.

Il testamento di monsignor Rahho (che compare nel video) è una lucida testimonianza e per Pax Christi un impegno: «L’uomo, che dona la sua vita, se stesso e il suo essere e tutto ciò che possiede a Dio e all’altro esprime così la profonda fede che ha in Dio e la sua fiducia in Lui… Chiedo a tutti voi di essere sempre aperti verso i nostri fratelli musulmani, yazidi e tutti i figli della nostra Patria amata, di collaborare insieme per costruire solidi vincoli di amore e fratellanza tra i figli del nostro amato Paese, Iraq».

Dal canto suo Pax Christi rinnova «l’impegno a non cedere alla tentazione crescente dell’assuefazione, dell’indifferenza, della rassegnazione».

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