Gli ultimi tre incidenti mortali sul lavoro sollecitano, una volta di più, un reale incremento dei controlli, una più efficace attuazione delle procedure utili a contemplare norme di buona tecnica e analisi del rischio specifico delle lavorazioni, percorsi formativi e informativi continui


Redazione

04/09/2008

di Cristiano NERVEGNA
Esperto di sicurezza sul lavoro – Movimento lavoratori di Azione Cattolica

Siamo purtroppo costretti a tornare con i commenti sulle tre morti sul lavoro che hanno funestato i giorni scorsi. Così come appare “ripetitivo” proporre il tema della responsabilità che tocca chi ha competenze tecnico-organizzative che possono incidere sui tassi di frequenza e di gravità degli incidenti stessi. La stessa responsabilità riguarda, naturalmente, chi lavora ed è direttamente responsabile della vita propria e dei propri colleghi.

Ma queste considerazioni non sono sufficienti a spiegare i 1170 morti “denunciati” nel 2007 che, seppur in lieve diminuzione rispetto all’anno precedente, rappresentano un tributo inaccettabile in un Paese sviluppato come il nostro. Ancora più pesante il dato se si tiene conto del peso dell’occupazione non regolare che caratterizza soprattutto lavoratori immigrati sul cui contributo, prezioso quanto spesso misconosciuto, grava, secondo stime Istat, un numero d’infortuni approssimativamente pari a 170 mila l’anno (stima per difetto).

Gli interventi realizzati sino a questo momento, a partire dal nuovo decreto legislativo (n. 81 del 2008) che opera una ri-organizzazione della pesante normativa italiana in materia di sicurezza sul lavoro, sembrano ottenere risultati ancora limitati.

L’efficacia di tali interventi dipende, a mio avviso, da un reale incremento dei controlli, da una più efficace messa in atto delle procedure delle attività lavorative in grado di contemplare norme di buona tecnica e analisi del rischio specifico delle lavorazioni, da percorsi formativi e informativi, continui, che leghino teoria e tecnica operativa, da uno snellimento della pesante burocrazia che grava sulle imprese senza alcun effetto positivo in termini di prevenzione insieme con la convinzione che tutti gli attori sociali coinvolti (datori di lavoro e lavoratori, in particolare) debbano, insieme, affrontare il problema definendo limiti e approcci specifici a tale materia.

Troppe volte, ancora, sembra si applichino invece a problemi nuovi logiche (e ideologie) superate. La difesa della vita di chi lavora e la dignità del lavoro sono questioni cui, con troppa superficialità, abbiamo dedicato sempre minore attenzione. Altre “emergenze” hanno colpito l’immaginario collettivo facendo slittare l’attenzione su questioni che erano e si sono rivelate meno rilevanti, se non strumentali.

Tornare a parlare oggi di sicurezza, nell’accezione piena del termine, vuole dire promuovere la vita e con essa la capacità d’analisi di fenomeni reali che toccano la vita delle persone fino a determinarne il futuro, la possibilità di vivere bene, di costruire famiglie solide. Nessuno sta chiedendo sconti, neanche i giovani (i più colpiti dalle incertezze di questi tempi), ma proprio perché consapevoli delle difficoltà del momento non siamo neanche disposti a credere che i problemi si risolvano promovendo nuove paure.

Il coraggio di cambiare lo dobbiamo a Giuseppe Virgillito (35 anni), Fortunato Calabrese (58 anni), entrambi operai delle Ferrovie di Catania e Giovanni Papetti (62 anni) di Cornegliano Laudenese. Sono solo gli ultimi, ma domani può essere diverso!

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