Mentre gli Usa fissano al 2011 la data limite della loro presenza in Iraq, la soluzione ai tanti problemi che travagliano quella regione del mondo appare sempre più improrogabile, per rispondere alla domanda di pace "globale" da troppo tempo inascoltata
Redazione
20/11/2008
di Francesco BONINI
C’è una data per la conclusione dell’intervento americano in Iraq, il 2011. Saremo a metà del mandato del nuovo presidente Obama, a due anni dalla fine di quello di George W. Bush, che questo intervento aveva caparbiamente voluto, arrivando dove suo padre si era ben guardato dallo spingersi. E dove Giovanni Paolo II aveva scongiurato di non mettere piede.
La prima guerra del Golfo tra Iraq e Iran, negli anni Ottanta, si era conclusa con un nulla di fatto: era servita per porre un limite invalicabile alle pretese dell’Iran dell’ayatollah Khomeyni di “esportare” la rivoluzione islamica. La seconda guerra del Golfo, all’inizio degli anni Novanta, aveva ristabilito lo status quo tra Iraq e Kuwait, la terza guerra, iniziata il 20 marzo 2003, di fatto, non è ancora conclusa.
Certo restano molteplici incognite, prima di tutto in Iraq. La tragica sorte di gran parte della minoranza cristiana, tradizionalmente rispettata e attiva nel Paese e ora sottoposta a una vera e propria persecuzione, è forse la spia più eloquente e drammatica di come sia difficile fare previsioni.
Questa persecuzione peraltro non ha solo un significato “locale”: da un lato, si accompagna ad altri inquietanti casi – basti pensare all’India – che accompagnano ambigui processi di “rinazionalizzazione”; dall’altro, s’inserisce in una situazione di progressiva emarginazione dei cristiani dai Paesi del Medio Oriente in cui erano tradizionalmente insediati. I cristiani fuggono e, anche quando sono accolti e rispettati come in Siria, tendono all’emigrazione verso l’Europa o l’America.
È una gravissima perdita per i Paesi d’origine – essendo tradizionalmente i cristiani una minoranza molto attiva e ricca di iniziativa -, ma è una gravissima ferita – come ha più volte ricordato anche di recente lo stesso Benedetto XVI – ed è una grave sconfitta delle ragioni della comunità internazionale. Tanto più che questa vera e propria persecuzione si consuma nel più assordante silenzio dei grandi mezzi di comunicazione planetari e delle stesse cancellerie internazionali.
Se questa exit strategy sarà rispettata, se gli Stati Uniti potranno uscire dall’Iraq e lasciare un Paese stabile e ordinato, dovrebbe essere progressivamente rimossa una delle grandi cause del picco negativo di popolarità che la presidenza Bush ha segnato nei confronti tanto dell’opinione pubblica interna, che di quella internazionale.
La politica internazionale non sembra tra le oggettive priorità della nuova amministrazione Obama, che si insedierà ufficialmente solo tra due mesi. Urgono i problemi economici, tanto interni, quanto appunto planetari. Ma per il Medio Oriente, dalla Terra Santa all’Afghanistan, inevitabilmente si dovrà passare, per tentare di articolare risposte e prospettive sicure, che si attendono da troppo tempo.