La crisi finanziaria che dall'America trasmette i suoi effetti anche in Europa impone un repentino cambio di marcia: basta con la fede cieca e assoluta nel mercato, ci vuole una rinnovata governance degli affari
Redazione
30/09/2008
di Gianni BORSA
Il presidente americano Bush predispone un “piano di salvataggio” da 700 miliardi di dollari, che però incespica alla Camera. Le Banche centrali iniettano liquidità nel sistema, mentre diversi Governi nazionali – fra cui quelli di Germania, Regno Unito, Olanda e Belgio – passano direttamente alle nazionalizzazioni. Altre capitali prospettano ipotesi simili.
Il sistema finanziario occidentale rischia il collasso: solo a pronunciare la parola «subprime» tremano le ginocchia; Wall Street e la City chiedono il salvagente. E il presidente francese Nicolas Sarkozy, al timone dell’Unione Europea, invoca un vertice comunitario per «ridefinire il sistema finanziario globale».
L’ubriacatura liberista degli anni Ottanta e Novanta, con i miti di Reagan e Thatcher, appare lontana. Soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, America ed Europa credevano di avere in mano la chiave di volta dello sviluppo inarrestabile: il comunismo, e dunque il dirigismo economico, era stato sconfitto dalla storia; non restava che il mercato. L’affermarsi della globalizzazione forniva ulteriori cartucce ai politici di turno che, praticamente fino a ieri, hanno ripetuto la stessa musica liberista, facendo presa sull’elettorato ancora in tutti questi anni Duemila.
Ma si era – e si è – di fronte a uno strano laissez-faire, abbinato a crescenti teorie nazionaliste e derive populiste: ovvero, mano libera in economia, erigendo al contempo barriere e protezioni per salvaguardarsi dalla libera (altrui) concorrenza. Con l’aggravante di un continuo ridimensionamento delle misure di solidarietà sociale e la messa in discussione del welfare e dei costi relativi.
I numerosi avvertimenti provenienti dagli economisti erano stati lasciati cadere nel vuoto, se non addirittura sbeffeggiati: «i soliti allarmisti». Ora che ci si trova alla implosione dei mercati creditizi, con la bolla speculativa che minaccia risparmiatori, imprese manifatturiere e conti pubblici, il cambio di marcia appare repentino.
Ci si dimentica persino dei migliori presupposti liberisti, si prospettano ritorni colbertisti, soluzioni keynesiane, persino sagge “terze vie” in grado di ricordare che il mercato ha bisogno di regole, che non esiste una sola teoria economica in grado di funzionare in un mondo tanto grande e diversificato, che ci sono nuovi e agguerriti protagonisti sulla scena mondiale (pesi massimi del calibro di Cina, India e Brasile), e che rimane ancora tutta un’ampia parte del pianeta esclusa dallo sviluppo e da ogni forma di solidarietà e di giustizia, colonizzata e sfruttata, la quale attende la propria fetta di benessere.
In questa fase occorre avere lo sguardo lungo. Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite, ammonisce: «Esiste il pericolo che le Nazioni si rinchiudano su se stesse invece di immaginare un avvenire condiviso e di costruire una nuova leadership mondiale». Quindi aggiunge: «C’è bisogno di una rinnovata visione della governance e dell’etica degli affari, con più compassione e meno fede cieca nella magia del mercato».
Nel discorso inaugurale dell’ultima Assemblea Onu, lo stesso Sarkozy ha affermato: «Ricostruiamo insieme un capitalismo regolato, dove pezzi interi dell’attività finanziaria non siano abbandonati alla sola valutazione degli operatori del mercato e dove le banche facciano il loro mestiere, che è quello di finanziare lo sviluppo piuttosto che la speculazione».
I subprime obbligano dunque l’Occidente a ripensarsi, nella speranza che si proceda verso soluzioni buone non solo per le tasche e gli interessi dell’emisfero più ricco del pianeta. Non a caso il presidente brasiliano Lula avverte: «Il carattere globale di questa crisi chiede soluzioni multilaterali, legittime e riconosciute». La vera svolta potrebbe partire da qui.