Compie 100 anni l'istituto di Monza che ospita ragazzi in difficoltà. «Per la crescita degli adolescenti la comunità è la risorsa più adatta»
Redazione
26/02/2008
di Filippo MAGNI
«Sa che c’è ancora qualcuno che ci chiama orfanotrofio?», chiede stupita sorella Patrizia, dell’istituto “Mamma Rita” di Monza. «Eppure – prosegue – tra le centinaia di ragazzi che ho incontrato nel Centro nei miei 22 anni di servizio, quelli senza genitori si contano sulle dita di una mano…».
La “Piccola opera per la salvezza del fanciullo” (il suo nome ufficiale) compie 100 anni, anniversario che sarà celebrato in autunno. Si tratta di una struttura che accoglie ragazzi minorenni in situazioni socio-familiari disastrate, in cui i genitori non possiedono le risorse umane o economiche per provvedere alla crescita dei figli: «Molti ci vengono mandati dai servizi sociali comunali, o in seguito a blitz delle forze dell’ordine che si trovano davanti bambini o ragazzi in condizioni pietose e li portano da noi».
Non è raro, spiega, il caso di nordafricani inviati giovanissimi in Italia per fare fortuna e che senza “Mamma Rita” si troverebbero a vivere per strada, analfabeti, senza alcuna prospettiva per il futuro e con l’unica ossessione di trovare soldi da inviare a casa, in Africa. «Noi apriamo le porte a tutti – aggiunge la religiosa -, l’accoglienza è nel nostro dna. Anche quando, per esempio, arriva un ragazzo rom: gli diamo la possibilità di lavarsi, mangiare, indossare vestiti puliti, anche se sappiamo benissimo che dopo appena un’ora scapperà dall’istituto. Curarlo è un gesto necessario, ma non è abbastanza».
L’obiettivo del centro “Mamma Rita” è infatti tradurre l’emergenza dell’accoglienza in un progetto educativo che parte dagli ambienti dove vivono i ragazzi. «La struttura – spiega sorella Patrizia – è di tipo condominiale. Ognuna delle 12 piccole comunità del Centro è formata da un massimo di 8-10 giovani più un educatore e dispone di un proprio appartamento con cucinino, sala da pranzo, camere da letto». Ogni ragazzo è responsabile del suo spazio, oltre che della cura delle cose comuni.
La soluzione ideale sarebbe che ciascuno degli ospiti dell’istituto trovasse una famiglia adottiva o affidataria? «Non sempre – risponde sorella Patrizia -. Il nostro istituto è stato tra i primi, negli anni Sessanta, a promuovere campagne sull’adozione, cui siamo molto favorevoli; ma abbiamo avuto esperienza di casi in cui l’affido si è trasformato in una condizione deleteria e di sofferenza per tutte le persone coinvolte. Dobbiamo avere l’umiltà di ammettere che non esiste il percorso educativo ideale in assoluto, ma è necessario che sia modellato di volta in volta a seconda delle caratteristiche del ragazzo».
Aggiunge la religiosa: «Una sorta di realismo educativo mi fa pensare che per i bambini molto piccoli l’affido è una buona possibilità, ma per ragazzi in età adolescenziale o preadolescenziale la vita in comunità come la nostra è la risorsa più adatta per la loro crescita. Anzi, forse è l’unica soluzione».
A ciò si aggiunge l’effetto devastante che assume l’istituto se inteso come “parcheggio” in attesa di una famiglia, che spesso non arriva. «Ci sono ragazzi – spiega – che potrebbero essere affidati, ma che da oltre tre anni stanno attendendo qualcuno che si prenda carico di loro. Potete immaginare come si sentano e che idea di società si formi in loro…».
Agli educatori si affiancano alcuni volontari che seguono i giovani ospiti del Centro nello studio e nei fine settimana: «Non è facile – spiegano – rapportarsi con ragazzi che sono stati allontanati dalle famiglie; ènecessario, per ognuno, cercare il miglior modo per creare interazione. In questo ci aiutano gli educatori e le sorelle, perché hanno a cuore il benessere del bambino, che non può prescindere dalla collaborazione di tutti coloro che gli stanno intorno».