Il teologo don Aristide Fumagalli: «La moralità è più che la legalità»
Redazione
16/05/2008
«La pretesa di stabilire buone relazioni sulla sola base di leggi fatte valere con la forza lascia vedere i suoi limiti perché non risolve il problema della relazione tra le persone. La moralità è più che la legalità». Don Aristide Fumagalli, docente di Teologia morale presso il Seminario di Venegono, riflette sulle strade per affrontare con efficacia le crescenti paure dei cittadini, andando alle radici del fenomeno, promuovendo una cultura della convivenza.
Una domanda di sicurezza che va educata: come si può rispondere?
Occorre riferirsi anzitutto a un’opzione di fondo: se con gli altri si debbano coltivare buone relazioni o se vadano mantenuti a distanza in modo tale che non creino problemi. Il mondo globalizzato non permette, neanche se si volesse, di percorrere questa seconda ipotesi che peraltro non corrisponde alla natura della vita sociale. L’incontro con l’altro essendo diverso comporta, inevitabilmente, una paura, che però non è l’indice di una relazione comunque pericolosa. Incontrarsi deve invece favorire la miglior conoscenza perché sia possibile stabilire una buona relazione. La paura è superata quando con l’altro si stabilisce un rapporto di fiducia. Allora un conto è immaginare che questo tipo di percorso sia difficile e debba essere anche adeguatamente percorso con la giusta prudenza, un altro è ritenere che il problema della relazione con gli altri possa essere risolto tenendoli a distanza.
È possibile pensare di ridurre la questione sicurezza solo a un problema di ordine pubblico?
Non sono necessarie solo leggi che salvaguardino i diritti fondamentali delle persone, evitando quelle gravi trasgressioni che possono effettivamente ledere persone e beni, ma occorre operare perché cresca la possibilità di relazioni virtuose. C’è bisogno di energie positive che i cittadini mettono a disposizione della convivenza di tutti. Se i singoli stabiliscono buone relazioni con gli altri, ne beneficia l’intero organismo sociale, cresce una cultura di convivenza che potrebbe appunto superare la logica di timore che altrimenti continua a regnare.
Nella diffusione di questa cultura della convivenza è importante il ruolo delle comunità cristiane?
Certamente. Peraltro i cristiani portano in eredità quello che è il tratto distintivo comandato dallo stesso loro maestro: il comandamento di un amore che giunga fino ai nemici. Questo non significa chiudere gli occhi di fronte alle difficoltà che comporta. Per certi versi il nemico resta tale, però la possibilità è intraprendere percorsi che non siano quelli della sua distruzione, ma che disinneschino la violenza che altrimenti continuerebbe. Alla fine la possibilità di eliminare la violenza è che o l’uno distrugga l’altro, oppure che qualcuno si faccia carico di un processo che instauri una logica differente. Questo ha i suoi rischi e anche i suoi prezzi.
Come risponde a chi accusa i cristiani di buonismo?
Ai cristiani è chiesto di essere semplici come le colombe e prudenti come i serpenti. Questo è un detto evangelico piuttosto noto. Semplici come le colombe significa di non mettere in discussione il fatto che la strategia da impiegare sia quella del bene, quindi dell’amore per il prossimo, fosse anche carico di negatività. Dall’altra parte la prudenza significa che questa operazione non è questione di un attimo e non prevede neanche che si mettano le fette di salame sugli occhi. Con tutta l’intelligenza che si ha a disposizione, semmai è intraprendere una strategia che, pur tenendo conto della gradualità necessaria, vada in questa direzione. Perché spesso l’alternativa che viene opposta a questo presunto buonismo da parte dei cattolici è che l’altro vada semplicemente eliminato o comunque combattuto. (p.n.)