Testimonianze di donne che hanno partecipato alla Resistenza TINA ANSELMI ONORINA BRAMBILLA PESCE
Redazione
Mi hanno chiesto di fare la staffetta e, quando la Resistenza è esplosa con tutta la sua forza, con la bicicletta facevo centoventi chilometri ogni giorno. Una delle conseguenze della guerra era un’usura fisica. Eravamo consapevoli che se l’Italia non avesse partecipato ai processi di liberazione del nostro Paese avrebbe avuto delle conseguenze negative. Quando De Gasperi andò a Parigi per tutelare gli interessi dell’Italia disse agli alleati che non era vero che tutta l’Italia fosse fascista; c’era un’Italia che combatteva per la libertà, che voleva conquistarla insieme agli alleati.
Un’amica, fidanzata con un partigiano, mi disse «Tu saresti capace di aiutarli? Vuoi aiutare i nostri ragazzi?». Avevo visto cosa succedeva quando non si offriva una salvezza a questi ragazzi, che venivano impiccati, bruciati nella piazza del paese, soggetti ad atroci momenti. Chi non accettava di servire i tedeschi e i fascisti era sottoposto alla tortura, al ricatto, a tutte quella crudeltà che sempre la guerra porta con sé.
Il Monte Grappa, le montagne che ci circondano erano, in un certo qualche modo, occupate dai soldati scappati dalle caserme, dai soldati caricati su carri bestiame, dove io stessa ho scoperto tutta la sofferenza, tutto il dramma che la nostra gente di campagna viveva nel momento in cui non era più possibile nascondersi, bisognava tentare di salvarsi. Salvare chi essendo dentro la Resistenza poteva farlo a rischio della vita. In quel periodo abbiamo vissuto la presenza di oltre duemila soldati che scappavano dalle caserme, che non volevano andare in Germania, che volevano possibilmente salvarsi e salvare le loro famiglie.
L’episodio più grave è stato quello di vedere centinaia di giovani nascondersi, fuggire, purtroppo molte volte catturati, persone che non erano nelle condizioni di andare in guerra per fare una guerra. Era una situazione angosciosa sentire che in montagna si combatteva e il doversi nascondere, anziché combattere. Solo nascondendosi si poteva pensare di salvare il numero più alto possibile di soldati. Uno spettacolo spaventoso: giovani catturati dai tedeschi e dai fascisti. Questa tragedia di questi giovani impiccati agli alberi, la tragedia di chi non poteva più nascondersi perché in campagna chi poteva salvarli? Era difficile potersi salvare.
Chi era disposto a rischiare la propria vita, il proprio futuro pur di offrire aiuto agli alpini, artiglieri, agli ex prigionieri ? Chi si prestava per salvare questi giovani, che erano poi i nostri compagni di scuola, i ragazzi con i quali avevamo combattuto sino a pochi giorni prima ? Se volevamo provare il rischio della resurrezione, i partigiani salivano in montagna più per salvare noi che loro stessi. Quei giorni e mesi sono stati terribili, dolorosi, li abbiamo vissuti non sapendo mai se un domani avrebbero rappresentato per noi la libertà o una fuga, che ci permetteva però di guardare al domani con più speranza.
Bisognava scrivere la parola “fine”! Noi, come partigiani, c’eravamo assunti il compito di scrivere questa parola. Fine alla guerra, fine ai combattimenti, alle torture, fine ai dolori e alle tragedie che si vivevano nei nostri paesi. Tutto questo lo abbiamo voluto, l’abbiamo pagato, perché questo potesse realizzarsi. Anche nei nostri paesi abbiamo voluto ricordare qualcosa che io credo debba avere un valore per sempre: se vogliamo non rivivere queste tragedie dobbiamo esserci, non c’è altra strada. Se vogliamo che la democrazia cresca nel nostro Paese, dobbiamo tutti partecipare a questa crescita, a questo cambiamento. Se ci siamo vinceremo nel nome della libertà e della pace.
(Intervento registrato di Tina Anselmi a Castelfranco Veneto.
Operatori: Luigi Gasparotto e Marco Giberti
Trascritto da Silvio Mengotto)